

Illustrated by @melo.di.segno https://www.instagram.com/melo.di.segno/
INTRODUZIONE
“E’ bene sapere qualcosa dei
costumi dei diversi popoli
per giudicare i nostri in
maniera più sana”
(Descartes, 2014 [or. 1637], p. 13)
Nel presente scritto cercherò di mettere in luce le riflessioni primarie avanzate dagli antropologi rispetto a ciò che incontrano nella loro ricerca sul campo, ed i conflitti con cui gli stessi devono confrontarsi, specialmente quando fanno da mediatori tra gli interessi dei destinatari delle attività di sviluppo e quelli dei medesimi progetti che erogano tali attività e per cui gli stessi antropologi lavorano. Dopo aver descritto il contesto etnografico affrontato nel lavoro di Patrizio Warren passerò a descrivere le principali tesi dall’antropologo, evidenziando più o meno esplicitamente il tipo di domande che si pone l’antropologia applicata ed i contesti applicativo-situazionali in cui si trova ad operare.
Successivamente, nel “desiderio di creare ponti tra chi si muove principalmente nel campo dei servizi o della attività di sviluppo e chi opera in quelle accademiche” (Declich, 2012, p. 10) -ossia di far dialogare l’ambito dell’antropologia applicata con quello dell’antropologia accademica- cercherò di far emergere, dal particolare della trattazione etnografica di Warren, questioni di carattere generale che hanno da sempre interessato l’ambito accademico. Dunque non osserverò solamente le dinamiche scaturenti dall’incontro/scontro (“Friction” in Tsing, 2011) di due diverse culture così come si manifestano sul campo; ma solleverò anche ineludibili problemi che erano già, perlomeno nella fase riflessiva dell’antropologia, centrali nel problematizzare il concetto di universale e quello di identità, e imprescindibili nel delineare la giusta metodologia per la comprensione delle culture “aliene”. In tal guisa il lettore verrà spinto verso una riflessione critica nei riguardi delle sue stesse categorie interpretative, con le quali “ritaglia” il mondo ed agisce in esso.
1] Industria dello sviluppo a Jocotán: un’analisi di Patrizio Warren.
Jocotán è un comune del Guatemala che si trova in prossimità del confine con l’Honduras a sud del bacino idrografico Copan Ch’ortì nel distretto di Chiquimula. Furono gli spagnoli nel 1539 a fondare la città di Santiago di Jocatán, dopo aver sopraffatto i Maya Ch’ortì. Durante l’epoca coloniale la fertile terra alluvionale fu sfruttata dai feudatari spagnoli per produrre cacao, tabacco, canna da zucchero, foraggio ecc. Gran parte dei campesinos Ch’ortì furono asserviti, altri invece si ritirarono nelle aride colline ove iniziarono un’economia di sussistenza coltivando mais e fagioli. Per incrementare la produzione agricola si iniziò a deforestare la zona per recuperare terreni da impiegare nella rotazione delle terre messe a coltura. Alla fine XIX secolo i coloni meticci e gli immigranti occuparono le aree più produttive con piantagioni di caffè ed anche miniere di ferro; i Ch’ortì furono allora costretti a stabilirsi in zone ancora più interne e ancora meno fertili, finendo per perdere l’autosufficienza alimentare delle loro economie familiari. Si videro dunque costretti a integrarla con la produzione artigianale di tessuti e vasellame. Intorno al 1930, nel frattempo che la deforestazione andava avanti 1, la terra divenne insufficiente per la rotazione e le piogge divennero meno regolari, causando un inaridimento dell’ecosistema che spinse i contadini indigeni (i Campesinos) a seminare il sorgo, un cereale africano più resistente alla siccità. Gli uomini iniziarono una migrazione stagionale dalle piantagioni verso zone in cui avevano l’opportunità di un lavoro salariato con cui integrare la loro economia familiare. Negli ultimi decenni del 900 si assiste alla riduzione della superficie dei poderi, a cui seguì una riduzione delle rese e si arrivò all’introduzione massiccia di fertilizzanti chimici nell’intento di risollevare l’indice calante dei raccolti. Agli inizi del XXI secolo nelle campagne del Guatemala troviamo una diffusa povertà e un’iniqua distribuzione di terre e risorse perlopiù a causa dei conflitti economici, sociali ed etnici che hanno pervaso la sua storia post coloniale; i dati del 2003 della FAO (Food and Agricolture Organization) 2 parlano dell’81% dei guatemaltechi, perlopiù contadini di origine indigena, che vivono sotto la soglia di povertà (FAO, 2003). I piccoli poderi di massimo un ettaro e mezzo sono insufficienti a mantenere una famiglia; così gli indigeni si adattarono alla grave situazione assumendo un metodo “duale” (De Janvry 1981) composto da un’agricoltura di sussistenza basata su mais e fagioli integrata a un lavoro salariato stagionale nelle grandi piantagioni o nell’edilizia. Tuttavia questa economia impedì loro di capitalizzare a sufficienza per ottenere un’emancipazione materiale. In seguito agli accordi di pace del 1996, i quali sancivano la fine di una guerra durata più di trenta anni 3, governi nazionali e amministrazioni locali decisero di impegnarsi per migliorare la situazione dei contadini attraverso progetti di sviluppo rurale sostenuti da fondi di donatori e agenzie internazionali. Dagli anni ‘90 si rivolsero ai contadini numerosi progetti di riqualifica e di sostegno e l’industria dello sviluppo divenne centrale nell’economia del paese. I campesinos con una sempre maggiore consapevolezza dei problemi del territorio e della loro economia divennero parte attiva detti progetti di sviluppo, il loro scopo era quello si ottenere una migliore condizione di vita. Arrivarono servizi idrici sanitari e di telefonia, la Chiesa cattolica e altre organizzazioni distribuivano beni di prima necessità alle famiglie più indigenti ma nonostante ciò i miglioramenti delle realtà contadine non erano evidenti ed esse portavano avanti la sussistenza di tipo duale cui si è sopra accennato. Questo perché i diversi progetti non fornivano economie sufficienti a sostituire la pratica consueta, ma apparivano appaganti solo come pratiche generatrici di liquidità addizionale (Warren, 2006). In questo contesto, in cui l’antropologia applicata trova la sua naturale collocazione, si inserisce il lavoro dell’antropologo Patrizio Warren. Egli, a fine 2004, venne chiamato ad analizzare uno dei progetti di sviluppo iniziato nel 1999 dalla FAO in Guatemala: quello del PESA (“Programa Especial para la Seguridad Alimentaria”) che intendeva eradicare la povertà estrema e la fame entro il 2015 (FAO 2003) promuovendo soluzioni tangibili ai problemi della fame e della povertà. Il PESA puntava a individuare tecnologie agricole, attività alternative di produzione di reddito e forme di organizzazione per la produzione capaci di rafforzare la sicurezza alimentare delle famiglie contadine, consolidarne il capitale sociale e promuovere, attraverso delle “buenas prácticas” 4 (PESA-Guatemala, 2004 a), un processo di empoderamiento (una serie di procedure con le quali si tenta di aumentare la partecipazione di individui e comunità alla vita sociale al fine di promuovere cambiamenti positivi per il gruppo). Date le persistenti condizioni di indigenza dei villaggi, il progetto PESA volle incoraggiare l’indipendenza economica dei contadini concentrandosi sul settore agricolo in direzione della sicurezza alimentare. L’organizzazione strinse un accordo con l’Istituto de Ciencia y Tecnologìa Agrìcolas guatemalteco (ITCA) che prevedeva la fornitura di sementi ad alto rendimento (mais ICTA B7 e fagioli ICTA ligero) ai produttori e la formazione di questi ultimi sulle tecniche di riproduzione dei semi nelle parcelle irrigue. Le sementi sarebbero poi state acquistate dalla stessa PESA che le avrebbe successivamente spartite tra le comunità bisognose. Così facendo si massimizzò la produzione durante la stagione secca, quando i terreni non irrigui non erano sfruttabili; ed era proprio ai possessori di questi ultimi che si vendevano le sementi, in modo che essi avrebbero potuto coltivarle nella stagione delle piogge. Nel 2002-03 un progetto pilota a Jocotán ebbe un riscontro positivo: così un gruppo di contadini del municipio fondarono ASEJO, l’Associaciòn de Semilleros de Jocotán, con la quale si intensificò la produzione di sementi nelle parcelle irrigue e si aprì la possibilità di espandersi sul mercato internazionale. Il PESA vide nei contadini ora riuniti nell’associazione ASEJO i prodromi di uno spirito imprenditoriale, un successo dal punto di vista di quello che PESA intendeva per empoderamiento.
La coltivazione irrigua permetteva tre raccolti annui e fornì un surplus di 27 tonnellate di semi di mais e fagioli nel mercato locale; si stimò che circa 4.000 famiglie contadine trassero beneficio da tutto ciò riducendo la loro necessità di emigrare verso lavori stagionali salariati. Si stimava inoltre che i membri di ASEJO avessero ottenuto un profitto del 100% sulle loro produzioni (PESA-Guatemala 2004). Si deve tuttavia precisare che in questo caso il calcolo del rapporto costi-benefici non aveva tenuto conto dei sussidi indiretti, come fertilizzanti, pesticidi, assistenza tecnico commerciale, trasporto e logistica, che il programma aveva offerto nelle zone pilota durante la fase sperimentale. Di fatto una rigorosa analisi effettuata da Broers, economista ingaggiato da PESA per l’occasione, prese a riferimento una parcella tipo ridimensionando al 20% il profitto nel rapporto costibenefici medio annuo, su un isolato coltivato per un periodo di 5 anni (Broers, 2004). Ad ogni modo PESA volle vedere nei suoi calcoli il successo del progetto di sviluppo, tanto che si decise di appaltare presso ASEJO la gestione finanziaria ed economica dell’attività, fatto coerente con la volontà di creare il cosiddetto empoderamiento. PESA e ASEJO decisero di accreditare semi ICTA e prodotti ai produttori, il quali avrebbe successivamente restituito quanto dovuto. In questo particolare aspetto, a mio avviso, s’intravede abbastanza chiaramente che il PESA, con tutta la buona fede che gli si può accordare, divenendo creditore dei singoli produttori, acquista un diritto nei confronti dei loro ricavati ponendo i contadini in una scomoda posizione di subalternità; in un’analisi di antropologia applicata è legittimo chiedersi quanto questa dinamica sia indispensabile per portare avanti un progetto di sviluppo in una realtà che ne ha senz’altro bisogno, ed osservare quanto implementi l’empoderiamento o quanto invece allontani i contadini dall’autosufficienza in direzione di una loro dipendenza economica rispetto a PESA.
Riprendendo il filo del discorso, vediamo che PESA si ritirò da Jocotán mostrando la volontà di espandere il proprio progetto di sviluppo su scala nazionale. Ma le cose iniziarono presto ad essere considerate sotto un’altra luce rispetto a quella ottimistica che il PESA aveva fino ad allora propinato; infatti se nel 2002-03 il progetto ebbe unriscontro positivo, l’annata successiva, per un insieme di concause, fu un fallimento.
Le analisi del PESA registrarono un notevole sbilanciamento del rapporto costi/benefici. Nel maggio del 2004, a causa di una serie di moventi che il PESA ravvisava nel cattivo clima e nel basso tasso di germinazione dei semi ICTA, furono vendute solamente 7 tonnellate di semi di mais; queste 7 tonnellate vennero vendute esclusivamente ad altre agenzie di sviluppo e alla stessa PESA, la quale aveva deciso di assumere il ruolo di fornitore-acquirente principale dei prodotti. In conseguenza di questa cattiva annata, in molti decisero di abbandonare ASEJO e circa la metà dei creditori si rifiutarono di pagare il debito con PESA lamentando l’infima qualità dei semi forniti da ICTA. Parte dei membri ASEJO rimasti decisero di vendere a PESA tutti i semi invenduti a un prezzo decisamente inferiore del dovuto; mentre altri, non volendo svalutare il loro lavoro, decisero di vendere i loro prodotti localmente.
Eppure, nonostante il fallimento economico del 2004, i membri rimasti di ASEJO erano speranzosi di rifarsi nell’annata 2005, diversamente dai funzionari istituzionali che manifestavano preoccupazioni per il proseguo del progetto. Al fine di comprendere l’ottimismo dei membri ASEJO sarà necessario guardare al ruolo che la produzione di sementi svolgeva nel modo di vita delle famiglie dei soci di ASEJO. Se si analizza lo stile di vita dei cinque tra i più attivi membri di ASEJO vediamo che essi non lasciarono il lavoro salariato stagionale e fecero fruttare al massimo delle loro possibilità le rendite agricole, non per venderle a PESA o ad altre associazioni e singoli, bensì per garantire un’abbondanza di alimenti alla famiglia, dal momento che il denaro proveniva dal lavoro alternativo. Per questi soggetti la produzione di sementi era marginale e preferivano puntare sulla ripartizione del rischio e dei profitti (Ellis 2000; Warren 2002).
Tutto ciò evidenzia una razionalità economica inattenta alla massimizzazione dei profitti. Le strategie di vita dei membri ASEJO sembravano piuttosto riflettere due principi del modo di produzione contadino che si proiettavano e sopravvivevano anche nella nuova attività: garantire per prima cosa l’autosufficienza alimentare della famiglia e distribuire il rischio associato all’innovazione diversificando gli investimenti. A questi imperativi culturali andavano riportati la grande cautela con la quale i membri dell’associazione si dedicavano alla buena práctica e il ruolo nel complesso marginale che la produzione di sementi continuava a svolgere nella loro economia familiare (Warren, in Declich 2012). La natura della diffidenza da parte dei funzionari istituzionali PESA si chiarifica quando si osservano i rapporti sull’indicatore costi/benefici stilati ora con i funzionari stessi, ora con i membri di ASEJO. Infatti, come già accennato sopra, l’analisi dell’indicatore svolta da Broers mostra che il primo ottimistico censimento delle annate 2002-2003 era stato fatto senza contare numerose spese, cosicché il rapporto costi/benefici in una media quinquennale scendeva da un 1:2 a un 1:1,2. Inoltre nel 2004 i rapporti erano attestati mediamente a 1:0,83 per il mais e a 1:0,75 per i fagioli. I conti dei membri ASEJO davano un’altra immagine e comprendevano dei valori non monetizzabili, per il fatto che non prevedevano un esborso diretto del produttore. Il diverso focus addizionato al resoconto PESA riguardava “le entrate che la famiglia avrebbe realizzato se, in luogo di produrre sementi, […] si fosse dedicata al lavoro salariato affittando a terzi il proprio appezzamento irriguo” (Warren, in Declich 2012 p. 124).
Senza contare questo valore, il rapporto medio saliva a 1:2,76 per il mais e a 1:2,45 per il fagiolo. Questo è il motivo per cui i membri di ASEJO non ritenevano il progetto un fallimento. Abbiamo qui un incontro/scontro tra due principi fondamentali che generano episodi di “friction” (Tsing, 2011): da una parte c’è la logica contadina che pensa al benessere dei suoi affetti e del suo mondo, e dall’altra una logica capitalistica che punta alla massimizzazione delle possibilità in direzione di una sempre più grande espansione di capitale. Tuttavia questo attrito tra logiche differenti ha generato un’ibridazione nel momento in cui alcuni membri ASEJO, che non vedevano un fallimento nel progetto PESA in virtù del ricalcolo dei rapporti sull’indicatore costi/benefici, mostravano i germi di un neonato pensiero capitalistico infatti intendevano commercializzare i propri prodotti al di fuori del Municipio di Jocotán e del Dipartimento di Chiquimula, costituendosi come una vera e propria cooperativa aperta al mercato internazionale. Tutto questo per PESA poteva senz’altro essere considerato come un successo dal punto di vista di un’ implementazione dell’empoderiamento ma, nonostante ciò, temendo che una nuova politica gestionale in ASEJO avrebbe fatto allontanare ancora più soci e ritenendo i membri incapaci di gestire un’attività nelle loro condizioni, PESA decise di “salvarsi la pelle” e di ritirare l’appalto, evidentemente perché ritenuto troppo rischioso e poco proficuo.
2] Pensieri dell’autore
Dopo aver descritto il contesto etnografico in cui si è mosso Warren sarà necessario descrivere le principali tesi esposte dal medesimo. Il successo del progetto di sviluppo PESA-Guatemala appariva strettamente determinato dall’adattabilità e sostenibilità delle buenas prácticas, ed è proprio in virtù di questo che secondo Warren era indispensabile chiedersi preliminarmente e pragmaticamente quanto queste ultime fossero realmente in grado di ridurre l’insicurezza alimentare e di promuovere il processo di empoderamiento. Un’altra domanda da porsi era la seguente: a prescindere dai dati evidentemente parziali e riduttivi del progetto nelle zone pilota, le buenas prácticas come sarebbero potute essere adottate spontaneamente dai contadini? I risultati positivi delle sperimentazioni controllate su piccola scala non erano rappresentativi di quelle che erano le potenzialità effettive del programma, infatti quando il management del progetto a fine 2003 e inizio 2004 valutò la messa in opera delle buenas prácticas i risultati non furono incoraggianti. I dati suggerivano che le buenas prácticas non erano così efficaci e sostenibili come si era creduto, si decise così di riconsiderarle alla luce di un’analisi del modo di vita (AMV). L’AMV è un modo di descrivere e interpretare l’articolazione tra le economie familiari e il contesto ambientale, economico-politico e socio-culturale nel quale le famiglie producono e si riproducono (Chambers, 1991). Per alcune agenzie di sviluppo l’AMV, strumento ideato da R. Chambers, era divenuta fondamentale per analizzare il cambiamento socio economico conquistando un grande spazio anche nei programmi della FAO (Warren, in Declich 2012).
“l’AMV si autodefinisce come un approccio basato sulle persone che mira a comprendere dall’interno le dinamiche attraverso le quali le famiglie di scarse risorse garantiscono la propria sopravvivenza materiale e sociale in un particolare contesto”(cit. In Warren, in Declich 2012, p. 113). Con l’AMV si possono così comprendere i motivi per cui le famiglie scelgono di adottare o meno le opportunità offerte dai progetti di sviluppo. Il PESA-Guatemala volle testare l’utilità della AMV nella valutazione dell’impatto socio-economico delle buenas prácticas, attraverso un esercizio pilota affidato proprio a Patrizio Warren. L’AMV fu condotta attraverso un processo di ricerca-azione (Stringer 1999), un processo di apprendimento collettivo e pluralista nel quale gli attori del cambiamento sociale sono chiamati a riflettere sulla natura e il senso di tale cambiamento. Il pocesso di ricerca-azione è condotto da un piccolo gruppo di persone interessate al tema in oggetto, con l’appoggio di uno o più ricercatori sociali che hanno il duplice compito di produrre elementi empirici per la riflessione e di stimolare il confronto tra diversi punti di vista.
Gli obiettivi centrali sono quelli di superare lo scarto tra conoscenza speculativa dei processi di cambiamento culturale e applicazione pratica dei loro risultati, e creare una maggiore consapevolezza dei partecipanti circa i pro e i contro del cambiamento, stimolando il loro coinvolgimento nelle decisioni. Le informazioni si raccolsero attraverso la documentazione del progetto ma anche tramite osservazioni partecipanti della vita familiare e sociale dei contadini. Riunioni di discussione e verifica settimanali permisero ai beneficiari e al personale del PESA di partecipare attivamente all’analisi e interpretazione dei risultati. Particolare attenzione deve essere data al contesto ambientale, economico-politico e socioculturale in cui la produzione artigianale di sementi è andata a inserirsi, ai cambiamenti nel modo di vita delle famiglie partecipanti a quella buona práctica ed allo lo scarto tra l’avversione al rischio dei contadini e una loro eventuale imprenditorialità necessaria per rendere lucrativa la produzione artigianale delle sementi secondo criteri di mercato. Nella sua analisi Warren ci mostra come la produzione artigianale di semi lungi dal costituire una forma di empoderamiento; diversamente essa appare perfettamente in linea con i meccanismi economico politici attraverso i quali il contadino è articolato in posizione subalterna e svantaggiata rispetto all’economia e alla società nazionale (Warren, in Declich 2012). “Nonostante fossero il prodotto di una riflessione collettiva al quale aveva contribuito lo stesso staff di terreno del PESA, i risultati e le conclusioni di quest’ analisi della produzione artigianale di sementi furono deliberatamente ignorati dal management del programma. Il rapporto della consulenza fu archiviato in qualche disco rigido.
Le raccomandazioni del gruppo di lavoro vennero lasciate cadere. Fu anche accantonato il programma di realizzare un’analisi dei modi di vita (AMV) delle altre buenas prácticas di sui si prevedeva la replica su grande scala”(cit. Warren, in Declich 2012, p. 130). L’autore ci fa così notare come PESA non portò avanti nessuna riflessione sulle proprie responsabilità rispetto alle criticità del progetto di sviluppo.
Si ritenevano le buenas prácticas strutturalmente efficienti e nel giustificare i fallimenti PESA spostava il focus delle responsabilità da se stessa attribuendo questi ultimi alle cattive condizioni meteorologiche, alla cattiva qualità dei semi e all’inaffidabilità dei contadini. In questo modo PESA si nascondeva dietro elementi senz’altro incisivi ma non esaustivi nel giustificare gli esiti negativi, negando di fatto le proprie responsabilità rispetto al cattivo andamento del progetto. Diversamente nelle fasi positive non mancò una retorica volta a rimarcare i propri successi, evidentemente con lo strategico intento di attirare finanziatori, a tal proposito sarà interessante vedere come di fatto venivano investiti i finanziamenti ottenuti e fino a che punto i campesinos ne abbiano beneficiato. Warren ci mostra il grande ruolo che PESA ha giocato nella mancata capitalizzazione di ASEJO, capitalizzazione che dipendeva da un mercato largamente determinato dai rapporti con PESA. I resoconti riportati sottolineano che nelle percentuali delle vendite soltanto il 20% delle sementi, quando queste avevano effettivamente reso una quantità necessaria (2002-2003), era stato venduto ad altri contadini; la restante parte veniva acquistata da PESA mantenendo la possibilità di portare avanti gli aiuti alimentari in favore delle famiglie più indigenti, collaborando con altre associazioni umanitarie e cattoliche. I contadini vendevano a metà del prezzo di mercato l’80% del proprio raccolto alla stessa PESA la quale in tal modo non facilitava le economie dei singoli associati; il prezzo ridotto con cui acquistava le sementi non permetteva ai coltivatori di accumulare un capitale sufficiente per ammortizzare eventuali perdite o da investire nell’anno successivo, né tanto meno per capitalizzazioni, infatti talvolta non gli permetteva neanche di coprire i debiti contratti con PESA la quale, come su detto, accreditava semi e prodotti per incentivare l’inizio di una produzione “indipendente” dei campesinos. Piuttosto l’associazione sembrava interessata a riprodurre un modello capitalistico e dunque a risollevare le sorti di un’economia su più ampia scala, quella municipale, e non quella dei singoli associati che avevano partecipato al progetto. In questa dinamica s’innesca una dipendenza degli associati rispetto a PESA che, col controllo dei prezzi e il potere gestionale, fa il buono e il cattivo tempo nell’economia dei suoi “beneficiari”. Nella sua duale natura di promotore-finanziatore del progetto di sviluppo e principale acquirente-intermediario della produzione, il PESA si era fin dall’inizio arrogato la prerogativa di determinare i prezzi di vendita che ASEJO doveva praticare, fissandoli a metà del prezzo all’ingrosso delle sementi certificate ICTA, ritenendo che tale prezzo avrebbe dato una maggiore accessibilità alle sementi migliorate. Già le analisi economiche rispetto al rapporto costi-benefici portate avanti da Broers (Broers, 2004) mostravano che il prezzo stabilito portava ad un un margine di guadagno certamente insufficiente a permettere la capitalizzazione di ASEJO e troppo esiguo anche soltanto per difendere i singoli produttori dai rischi delle annate negative, ma tutto ciò venne ignorato dal management PESA. “Occorreva perciò che ASEJO riconsiderasse seriamente la viabilità di quel prezzo. […] Se, nel 2004 ,il prezzo pagato fosse stato uguale a quello di mercato, dal punto di vista “etico” il margine di profitto medio dei cinque produttori campionati sarebbe salito dallo 0,8 al 1,6% per entrambi i coltivi. In questo caso, con un utile del 60%, ASEJO avrebbe verosimilmente potuto ammortizzare gli shock subiti ne corso dell’annata, senza doverne caricare il costo sui soci e forse anche capitalizzare parte dei profitti per reinvestirli nella produzione 2005. A questo punto, viene da chiedersi come il PESA non si sia accorto di un errore tanto grossolano nella gestione di una sua buena práctica” (cit. Warren, in Declich 2012, pp. 128-129). La buena práctica si configurò infine come una dinamica per abbattere i costi della distribuzione di sementi alle famiglie contadine in stato di povertà, sfruttando per tale scopo risorse come terra e lavoro di altre famiglie contadine meno disagiate. In altri termini il prezzo politico dei semi distribuiti ai contadini più poveri era in gran parte retto dagli investimenti e dal lavoro delle famiglie meno povere socie di ASEJO. Il prezzo eccessivamente basso imposto da PESA è servito come ammortizzatore per l’industria dello sviluppo e non come aiuto erogato dall’associazione in favore delle economie familiari dei contadini. Al contrario questi ultimi sono serviti da mezzo tramite cui PESA ha ottenuto, per tre anni, un’ingente quantità di sementi artigianali a basso costo che poi distribuiva a Jocotán, senza garantire un equo compenso ai coltivatori. Durante lo svolgimento del programma, i responsabili di PESA e i burocrati si sono probabilmente resi conto di poter abbattere i costi di distribuzione dei semi riuscendo ad ottenerli a un prezzo conveniente da un’unica associazione, in questo caso ASEJO (Warren, in Declich 2012). PESA incaricò Warren di stilare un resoconto sull’andamento del progetto in previsione delle spese per gli anni successivi (2005-2009). Warren espose le criticità che abbiamo descritto sopra, ma la sua relazione, come già detto, venne ignorata e non presa in considerazione dai suoi stessi committenti; questi ultimi, continuavano a dirigere il progetto PESA secondo una logica burocratizzante e massimizzante tipicamente industriale, volta alla sopravvivenza e prolificazione dell’industria dello sviluppo stessa, e non effettivamente dedita a fornire l’aiuto necessario ai contadini. Le proposte di budget per gli anni a venire non avevano bisogno di ulteriori commenti, dal momento in cui il 22% sarebbe stato dedicato al finanziamento delle buenas prácticas, mentre il restante 78% sarebbe invece stato stanziato per coprire le spese logistiche, l’apparato burocratico, le spese organizzative e il personale di PESA che costavano tre volte tanto rispetto a ciò che veniva effettivamente investito per i destinatari del progetto (PESA-Guatemala, 2004d).
3] Incontro-scontro, attriti e identità
“L’uomo entrò nello stato di eguaglianza
di tutti gli esseri ragionevoli, qualunque
fosse il loro rango e poté pretendere di
essere scopo a se stesso, di essere riconosciuto
da ogni altro come tale, di non essere
adoperato da alcuno di essi come mezzo
per arrivare a qualche fine […]
Nessuno ha il diritto di disporre di lui a suo piacere”
(Kant, 1956 [or. 1786]. Cap. VI p. 201)
Questa nuova forma di articolazione subalterno-egemone post coloniale emerge dagli anni 90, quando si misero in opera diversi programmi di sviluppo rurale e quando l’industria dello sviluppo iniziò ad essere una componente importante dell’economia e della vita sociale locale. Tra il popolo la maggior parte delle persone istruite presero a lavorare per i suddetti programmi di sviluppo (in essi si osserva una particolare creolizzazione della lingua, in quanto parole del gergo dello sviluppo sono divenute parte del loro linguaggio quotidiano). Tra le tante conseguenze di questi fenomeni di contatto generatori di “friction”(Tsing, 2011) vediamo da un lato il positivo inizio delle rivendicazioni dell’equità di genere da parte di molte contadine occasionato appunto dalla presenza di progetti di sviluppo che, pur non avendo tra i propri obiettivi il raggiungimento della parità tra i sessi, erano portatori di una mentalità che ricomprende un’uguaglianza di genere assente nella tradizione Ch’ortì, e dall’altro la rivitalizzazione dell’identità culturale e della tradizione Ch’ortì per opera di attivisti locali del movimento pan-maya. In tale intento si può verificare una ripresa di elementi tradizionali all’interno del nuovo contesto coloniale; ossia è proprio grazie alla posizione di subalternità che si vanno a recuperare alcune caratteristiche passate che adesso possono assumere una valenza identitaria e distintiva, quando invece nel passato potevano rappresentare la normalità del quotidiano. Diversamente le donne dalla subalternità trassero tatticamente 5 (De Certeau, 2001) l’occasione per migliorare la loro posizione sociale ricercando una parità di genere tradizionalmente assente. L’indigeno Ch’ortì che agisce per il proprio riconoscimento si trova in una situazione particolare in quanto, affinché esso sia efficace, è costretto a ricercarlo all’interno dell’arena del riconoscimento occasionata e controllata dalla cultura egemone di cui è obbligato ad impararne i linguaggi. L’ agire colonialistico controlla, manipola e assimila l’alterità rendendola simile a sé. Questo da un lato rappresenta una vittoria della cultura egemone che impone le proprie logiche, ma dall’altro è la sola maniera con cui l’indigeno ha una qualche possibilità di riconoscimento e di continuità con il suo passato tradizionale, ora riconvertendolo tatticamente alle nuove necessità.
Dall’incontro/scontro di due diverse culture segue una sintesi culturale che genera qualcosa di inedito, nuove possibilità esistenziali e nuovi modi di pensare al mondo. Non si deve tuttavia cadere nell’errore dell’essenzializzazione credendo che dietro tale sintesi ci siano culture “pure” alle quali si possono applicare categorie dicotomiche come noi/voi. Le culture non sono monadi pure ed immutabili, bensì entità fluide e divenienti e la loro identità è un qualcosa di dialettico in cui troviamo continue risignificazioni e negoziazioni. Si deve forse pensare in termini di micro mondi che s’incontrano-scontrano, dando vita a nuovi mondi e a nuove intersezioni di identità che si ridisegnano continuamente. Dunque la cultura colonizzatrice è il confine entro cui si svolgono le negoziazioni identitarie in un rapporto asimmetrico e ricco di attriti. Mentre uno dei poli che agiscono nella “Friction” (Tsing 2011) mira a consolidare un’egemonia, l’altro cerca di ottenere un riconoscimento. Entrambe le parti articolano discorsi universalizzanti ed essenzializzanti, perciò ben poco improntati a cogliere l’articolazione multi cromatica dei soggetti. Tsing descrive questi attriti come “the awkward, unequal, unstable and creative qualities of interconnection across difference” (Tsing 2011, p. 4). Ripetiamolo: il valore puro ed universale che si da all’identità non esiste poiché essa nasce nell’attrito tra le alterità, è sempre costrutto socio-culturale dinamico e magmatico, non è mai un “in sé”. Potremo arrivare a dire che essa trae la sua origine dialettica dagli occhi di chi la osserva; o meglio, nell’impatto affettivo tra i due interlocutori si occasiona un mutuo completamento tra questi che sono troppo spesso erroneamente stigmatizzati in un’allegoria manichea noi/voi. Sotto certi aspetti credo si possa trasporre nell’argomento presente un concetto del filosofo Nietzsche e con ciò affermare che l’identità è “pura” solamente nella sua volontà di affermare sé stessa, come “volontà di potenza” 6 (Nietzsche, 2017 [1885]).
Valutare che cosa sia una cultura in sé sembra adesso sfuggire dalle possibilità conoscitive dello sguardo antropologico. Le parole del filosofo Martin Heiddeger presenti in, “Lettera sull’Umanismo” sembrano adesso particolarmente pertinenti:“Con la stima di qualcosa come valore, ciò che così è valutato lo è solo come oggetto della stima umana. Ma ciò che qualcosa è nel suo essere non si esaurisce nella sua oggettività, e ciò tanto meno se l’oggettualità considerata ha il carattere del valore. Ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (Heiddeger, 2008 [or. 1949], p.301). Gli attriti restituiscono linfa vitale ai concetti giudicati universali (la morale, la religiosità, la giustizia, il bene, il male etc) i quali, se si trovano in una situazione di rischio a causa di fenomeni di friction, divengono ancora più imperativi e quando soccombono costringono ad una nuova genesi di valori. Come sostiene la Tsing: “Through friction, universals become practically effective. Yet they can never fulfill their promises of universality” (Tsing, 2011. p. 8). All’interno di progetti di sviluppo è possibile l’insorgere di attriti tra i beneficiari e i responsabili del progetto stesso. Perciò l’obiettivo di creare consenso (Van Aken, in Declich 2012) è centrale per la riuscita di un tale progetto, sia per quanto riguarda l’adesione dei beneficiari, ma anche per creare solidi presupposti da proporre ad eventuali finanziatori. Al fine di stemperare gli attriti, la cooperazione tra beneficiario e organizzatore del progetto si rivela centrale. Tuttavia i fattori da tenere in considerazione sono molti: in primo luogo, i promotori di un progetto di sviluppo si rivolgono ad enti e istituzioni radicati sul territorio, i quali seguono modelli sempre differenti e peculiari rispetto a quelli inevitabilmente “standardizzati” proposti dalle organizzazioni, che finiscono col nascondere le realtà più marginali e assecondare i commerci clientelari (Ciavolella, in Declich 2012); le istituzioni dello sviluppo rischiano spesso, come nel caso qui esaminato, di propinare valori economici, sociali e culturali che non appartengono alle culture dei beneficiari e che quindi faticano ad attecchire durante lo svolgimento del programma. I contadini del Guatemala, nonostante le buenas prácticas, mantenevano come obiettivo finale quello della sussistenza, non quello della capitalizzazione. In secondo luogo i beneficiari reagiscono talvolta a questi programmi in modo negativo, considerandoli come interventi invasivi ed ignari dei reali problemi che affliggono il loro quotidiano (Van Aken, in Declich 2012). La messa in opera di detti programmi rivela infatti la loro aleatorietà, e la loro consistente capacità di attrito, programmando politiche che si dimostrano inadeguate nel momento in cui si cerca la loro attualizzazione concreta e fattuale (Mosse, 2005; Van Aken, in Declich 2012).
Considerazioni finali
Nel caso di studio affrontato abbiamo più volte osservato il peculiare ruolo dell’antropologo coinvolto nell’organizzazione di sviluppo per poi vedere i suoi resoconti ignorati nella misura in cui evidenziano criticità del progetto ritenute scomode. Così l’antropologo si trova intrappolato tra due poli: da un lato i finanziatori e dirigenti PESA e dall’altro i campesinos Ch’ortì; in tal contesto “per chi parla l’antropologo?” (cit. Ciavolella, in Declich 2012, p. 60) e quali saranno le implicazioni etiche del suo posizionamento in relazione ai su detti poli e rispetto alla propria professionalità? Domande difficilmente solubili attraverso una riflessione di carattere generale.
L’antropologia applicata dev’essere attenta ad un’“umanità situata nella storia e non
astrattamente definita come “natura umana”” (Rossetti, in Declich 2012, p. 142). Il campo in cui opera vede l’incontro di culture differenti che, come abbiamo sottolineato in un capitolo precedente, si concretano e oggettivano nell’incontro stesso. L’antropologo in primis partecipa in questo incontro, proiettandovici i costrutti sociali e culturali che gli appartengono (es. “natura umana”), rispondendo a stimoli che gli sono familiari e ponendo un accento su ciò che, invece, percepisce come alieno da sé. “L’antropologo è continuamente esposto al pericolo di proiettare acriticamente in determinati fenomeni culturali extraeuropei i problemi, le scelte, e i significati che appartengono esclusivamente a singole epoche della storia interna della civiltà occidentale” (De Martino, 1962, p.6). Nel tentativo di trasportare un significato da un mondo a un altro gli agenti cercano di comprendersi riducendo il linguaggio dell’altro ai propri paradigmi, cercando di mantenere un elemento universale di equivalenza tra l’enunciato e il suo significato (Blaser, 2010). Si deve però “spezzare il cerchio” (Rossetti, in Declich 2012), superare la pura dialettica esercitandosi a concepire l’intero spettro cromatico delle manifestazioni umane. Perciò lo studioso deve aspirare a un resoconto quanto più decentrato possibile, scevro da intenti catalogatori o edulcoranti e spogliato di tutte le forme di pietismo cosi come di tutte le pretese universalizzanti. Tuttavia è anche importante riconoscere che certi assunti aprioristici malauguratamente generalizzanti ed essenzializzanti sono strumenti euristici in parte utili, purché adoperati con la dovuta cautela, a misurare ciò che è intrinsecamente non misurabile. Senza di essi non potremmo muovere i primi passi in un’analisi antropologica; è dunque con estrema cautela ed onestà intellettuale (oserei dire con un etnocentrismo critico) che dobbiamo avanzare anche con l’utilizzo di certe categorie ma restando sempre pronti ad utilizzarle criticamente, posizionandole all’interno del contesto in cui sono state prodotte, consapevoli del fatto che sono strumenti limitati e limitanti che devono essere scartati nel momento in cui si sia esaurita la loro funzione e laddove si sia compresa l’irriducibilità dei fenomeni culturali ed identitari ad essenze, evitando di confondere il generalizzante ed euristico mezzo descrittivo con la natura sempre particolare e irriducibile dell’oggetto descritto.
NOTE
1 Oggi la vegetazione che ricopre le alture di Jocotán è insufficiente a trattenere l’acqua piovana e conservare l’umidità nel suolo, inoltre la stagione delle piogge inizia con un mese di ritardo ed è caratterizzata da inattese sospensioni o cataclismi divenuti sempre più frequenti.
2 Associazione no profit delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, avente lo scopo di aumentare la produttività agricola, migliorare la vita delle popolazioni rurali e contribuire alla crescita economica dei suoi paesi membri.
3 La guerra civile vide scontrarsi il governo del Guatemala contro gruppi ribelli orientati a sinistra sostenuti dalla popolazione Maya e ladina, la classi contadine e povere del paese. Le forze governative del Guatemala sono state condannate per genocidio e violazione dei diritti umani verso i civili.
4 Un insieme di conoscenze tecniche volte ad aumentare il reddito e il benessere dei contadini, a variarne le entrate, a consolidarne il capitale e a garantire una fonte di sussistenza in sé sufficiente (si sviluppò tra le altre cose un’attenzione rivolta ad evitare il totale depauperamento del territorio attraverso uno sfruttamento sempre meno invasivo delle risorse naturali). L’elenco di buenas prácticas del PESA-Guatemala comprendeva: immagazzinamento migliorato delle granaglie dopo il raccolto, tecniche di compensazione dell’acidità del suolo, produzione di sementi e di ortaggi, unità di ingrasso di pollame, produzione cooperativa di ortaggi con sistemi di irrigazione migliorati, orti familiari migliorati, allevamento di animali da cortile con tecniche migliorate, coltivazioni in serra di ortaggi, coltivazione di varietà di mais e fagioli ad alto rendimento su parcelle di collina con tecniche agro forestali e di conservazione del suolo e produzione artigianale di sementi migliorate di mais e fagiolo alla quale fa riferimento questo capitolo.
5 All’interno di un rapporto di potere asimmetrico tra due soggetti la strategia è definita da De Certeau “l’appropriazione da parte di un soggetto dotato di forza sufficiente, di uno spazio su cui esercitare il proprio controllo […]” (De Certeau 2001, p.72). La tattica è invece per De Certeau “l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio” essa si insinua “nelle intercapedini del controllo esercitato dal soggetto dominante, negli spazi vuoti che il potere non riesce a raggiungere” (ivi, p. 73).
6 La volontà di potenza è per Nietzsche la volontà che perpetuamente rinnova sé stessa e i propri valori; La volontà di potenza ricerca incessantemente il suo stesso accrescimento in un’infinita pulsione di rinnovamento. Tale condizione ha il paradosso per cui la volontà nell’impossibilità di soffermarsi su un punto di vista finale e definitivo deve volere e
negare se stessa allo stesso tempo. Alla potenza della creatività segue sempre il suo annientamento per poter nascere ancora.
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-Un ringraziamento speciale al caro amico Davide-