Benni apre la prima srtrofa evocando un’immagine relativa al tempo. Sembra voler dar voce a Kaspar Hauser, ricordando la sua prigionia, identificando l’amore come polvere per terra in un penitenziario pare quasi volerci mettere in guardia su qualcosa, scrivendo sotto il ferro di una grata dal centro di Norimberga, dove fu incarcerato. Il sogno di benessere che offre un bagno caldo in un calidario può, in un attimo, facilmente trasformarsi in un calvario. Potrebbe essere questo il suo messaggio? Ci troviamo in un illusorio e fuggente attimo di pace che si regge precario sui vapori inconsistenti di una vasca termale? Seguono rime criptiche che possono far riferimento alla parte oscura, di sè, del vivere terreno.
Nel ritornello John Princekin identifica le loro voci con quelle degli scribi. Messaggeri dai corpi marchiati, dagli occhi sbarrati, sottolineando lo stato di consapevolezza nel quale si trovano.
Altra possibile similitudine che secondo me si può cogliere in questo senso tra il fanciullo d’Europa e i nostri ambasciatori è questa: “il contatto col mondo gli era quasi insopportabile, i suoi sensi così acuti lo mettono a dura prova e se non fosse per la sua eccezionale tempra si sarebbe irrimediabilmente perso, psichicamente”.
John Princekin apre la seconda strofa lanciando sassolini contro l’Opportunity Rover (detto anche Mars Rover, veicolo a motore che viaggia sulla superficie del corpo celeste) e sventola i 3 biglietti di sola andata per la metro dell’Einstein-Rosen (teoria fisica riguardante un cunicolo spazio-temporale, detto anche galleria gravitazionale, un buco nello spazio-tempo einsteiniano che permetterebbe a chi lo attraversa di viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce da un punto all’altro dell’universo, consentirebbe anche di viaggiare nel tempo).
“Ho creduto che parlarsi potesse servire A salvarsi dal morire dentro prima di sparire” è pura poesia. Come si interpreta il sublime? Ci vedo tutte le speranze che ha riposto nella sua musica, nel voler lanciare un messaggio, nel voler parlare, oltre che a se stesso, anche all’anima delle persone pure, per non “morire dentro” prima di dissolversi e sparire. Per lasciare un segno? Un’eredità? Oppure perchè le parole in fin dei conti servono a poco?
Prosegue con un riferimento alla battaglia di Blood River (Sudafrica. Le truppe Zulu combattono per la propria terra, vogliono impedire l’insediamento dei coloni Boeri.) Il fiume si tinse di rosso, il sangue degli autoctoni, l’acqua che turbina nel cuore di Princekin è torbida proprio come quella del Blood River, il fatto che giri lungo un’orbita di un’altra fine fa pensare ad un periodo di transizione, ad un cambiamento, soprattutto perchè prosegue dicendo che servirebbe più sorriso. Una denuncia contro il colonialismo in generale o la semplice descrizione di uno stato d’animo? Entrambe le cose? Seguono altre rime a tema esoterico forse riferite a Lord Stanhope? Massone aristocratico nemico di Kaspar.
Conclude facendo una riflessione sul mondo moderno, totalmente inquadrato dalla matematica, partendo dai numeri dell’IBAN (chiaro riferimento all’importanza attribuita ai soldi) lungo la retta di Riemann (funzione matematica) fino ad incontrare un “punto fuori posizione”, qualcosa che non si può quantificare, qualcosa che non si può spiegare con i freddi numeri, con la scienza, che arrivata a questo punto della retta, nega qualsiasi fenomeno per il quale non esistano ancora spiegazioni logiche, razionali o replicabili, pur di non vedere la sua equazione andare in frantumi.
Arriviamo all’ultima strofa di Mezzosangue, apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni che può essere vista come una critica verso la Chiesa ma anche come un omaggio a quello che dovrebbe essere il vero significato della fede, quella più pura e genuina, quella del principio appunto, non ancora contaminata e strumentalizzata dagli uomini che hanno sempre utilizzato la religione come forma di controllo. Significativo al riguardo questo particolare della storia: “Nonostante la sua immensa bontà, Hauser non aveva fede, è l’esempio del fatto che l’idea di Dio non è innata nell’uomo, ma gli viene dall’esterno, sia attraverso l’osservazione della natura, sia attraverso l’istruzione o l’esempio.” Un riferimento e un omaggio anche all’innocenza di Kaspar Hauser, essere libero dalla corruzione del sistema? Torna l’imposizione dei numeri, come dittatori che schiavizzano il nostro presente e diventano moneta per comprare opportunità. Numeri che possono essere identificati nei soldi ma anche nelle visualizzazioni per esempio, puntando tutto sulla quantità, sulla massa, quei numeri permettono di arrivare “in alto”.
Mezzo rifiuta di “stare sul pezzo” in questo senso perchè non è interessato a certe vette, artificiose e fittizie. Per questo esce con una delle sue perle, versi che contraddistinguono la sua sconfinata, semplice e disarmante genialità: “Mo che tutti parlano del rap è il rap a stare zitto” criticando la scena hip hop, ormai satura di pagliacci e finti gangsta che seguono solo la moda e hanno perso il vero significato che sta alle origini di questo genere. Continua criticando la società che ha messo radici profonde dentro la parte più oscura delle persone, si nutre di questi disvalori e allo stesso tempo li alimenta, in un circolo vizioso senza fine. Identifica negli USA le origini di questa società, che marchia gli uomini, li “porta al pascolo” come un gregge e mira ad averli tutti buoni ed obbedienti, tutti a seguire il pastore. A questo punto elenca i numeri della successione di Fibonacci (o successione aurea) e si diramano vie d’infinite interpretazioni. Può voler paragonare chi si sottomette a tutto ciò, ai conigli nell’esperimento di Leonardo Fibonacci quando afferma: “A te interessano i tuoi simili, non superi gli zero”. Non sei disposto nemmeno ad ascoltare chi la pensa diversamente da te e quindi diverso dai tuoi simili, non superi gli zero può riferirsi ad una concetto strettamente valutativo dell’essere umano visto come specie. Potrebbe essere visto come una sorta di chiusura mentale perchè non superi lo zero, non scopri cosa c’è oltre. Gli zero potrebbero essere quelli dei conti in banca, quindi sei talmente materialista che non vai oltre, non superi quel tipo di attaccamento venale.
L’utopia di Mezzo? “Spezzerei le gambe ad ogni vossignoria di ogni gerarchia” Non credo che questa rima abbia bisogno di spiegazioni, la trascrivo e sottolineo perchè riassume in una riga parte del suo pensiero e credo possa essere condiviso da molti. Non è anche la nostra utopia in fin dei conti?
Chiude il cerchio tornando sulla spiritualità, fornendoci la sua visione: “Sto nell’uno con coscienza”. In sostanza: “quale messa?”. Possiamo starcene benissimo a casa se vogliamo guardarci dentro, parlare con la parte più profonda di noi stessi, non c’è alcun bisogno delle celebrazioni per sentirsi parte di qualcosa, per essere collegati all’universo intero, al tutto, che in definitiva siamo noi, ognuno di noi.
Alla fine del viaggio all’interno di queste menti che si sono elevate oltre ogni confine, lascio libera interpretazione, scevra da condizionamenti, all’ultima rima. Ricordando sempre che “malgrado le terribili prove cui fu sottoposto, Kaspar Hauser conservò la fiducia negli uomini; colmo di bontà, egli accettò il suo destino, perdonando chi gli aveva fatto tanto male. Egli ha così trasformato in una vittoria dello spirito la sconfitta sul piano esteriore, ha trasformato il male in bene.”
Buonanotte dai discendenti di Kaspar Hauser. Al prossimo tuffo nell’inestimabile e poetica emozione che le rima ci dona. Alla prossima analisi su CGS
Kaos (Marco Fiorito, 1971-Caserta) è uno dei precursori dell’hip hop in Italia, inizia con le altre arti che contraddistinguono questo movimento: la break dance e i graffiti. Prosegue come MC e sta anche dietro ai piatti per alcuni suoi lavori, comincia con il rap in inglese per poi passare all’italiano, si può quindi considerare uno degli artisti più completi della scena e un fiero rappresentante del più puro e vero underground. Che altro aggiungere?
Semplicemente un “dannato” poeta che scuote e fa vibrare la tua anima con le corde vocali, soprattutto dal vivo, quando ci si fonde tutti in un’unico suono, nella stessa vibrazione.
Pandemia. Curioso, lo so, suona così familiare in questo periodo non è vero? Pensiamo all’ultima nostra settimana o all’ultimo mese, in realtà potremmo prendere in considerazione l’intero anno. Si, è passato un anno bella gente.
Quante volte abbiamo sentito o pronunciato questa parola, calcolando anche tutte le sue varianti quali pandeminchia, pseudopandemia, psicopandemia e via dicendo? Quante volte abbiamo nominato il suo fedele compagno dai petali petalosi o, per stare in tema, le sue varianti più “simpatiche” quali coronavairus, minchiavirus, ginovirus e via dicendo? Chi ce lo fa fare? A chi importa il numero esatto di volte? Viene la nausea solo a pensare di doverci pensare quindi andiamo semplicemente avanti tornando indietro. Rewind.
Pandemia. Non è quello che vi aspettereste di sentire, non è quello di cui vorreste parlare probabilmente o quello che tutti siamo costretti in un modo o nell’altro a subire, è altro. A mio avviso, uno dei pezzi migliori di kARMA, il terzo album di Kaos. Sarà che ho lasciato dei pezzi di cuore sottopalco ai live quando la sinergia tra le persone che cantano all’unisono era talmente forte da non riuscire a descriverla e nei momenti difficili mi veniva sempre in mente, mi dava sollievo.
Credo di essermi ripetuta la sua prima rima centinaia di volte, l’avrò cantata davvero centinaia di volte, quando stavo male per qualcosa mettevo le cuffie, lasciavo che la voce rauca di Kaos alleviasse il mio dolore e alleggerisse la zavorra che comprimeva il mio costato.
“A questa vita non ho chiesto niente in fondo Manco di venire al mondo Mi domando se c’è un senso e non rispondo”
Può sembrare banale se non ci si presta la dovuta attenzione, la trasformavo in un mantra e rieccheggiava nella mia testa con la sua disarmante elementarità finchè raggiungevo una sorta di rassegnazione cosmica che mi permetteva di superare più facilmente quell’ostacolo. Giusto o sbagliato andavo avanti e stavo meglio, quando non ce la facevo più a volte svuotavo la testa dalle domande invece di ostinarmi a volerla riempire con le risposte.
A volte se pensi all’universo intero ti rendi conto di quanto piccolo sei e diventano più piccoli anche i tuoi problemi, forse, o semplicemente ti rendi conto che alla fine passerà. Farai come hai sempre fatto, ti sei lasciata alle spalle l’ostacolo precedente e quello prima ancora, in un modo o nell altro, e così sarà per quello che hai di fronte e per il successivo.
A tal proposito, un amico ha condiviso con me la seguente citazione di Jodorowsky:
“decisi di lasciarmi andare alla corrente, di non fare la minima resistenza al destino, in qualsiasi forma si presentasse. Niente che m’era successo finora era bastato a distruggermi; nulla era andato distrutto, se non le mie illusioni. Io ero intatto. Il mondo era intatto. Domani poteva anche esserci la rivoluzione, l’epidemia, il terremoto; domani poteva non restare viva un’anima a cui volgersi per compassione, per aiuto, per fede. A me sembrava che la grande calamità già si fosse manifestata, che io non potevo esser più veramente solo che in quel preciso momento. Decisi che non mi sarei attaccato a nulla, che non avrei atteso nulla, che d’ora in poi avrei vissuto come un animale, una bestia da preda, un pirata, un predone.”
Riassume bene lo stato d’animo che ho cercato di descrivere. Ti eclissi, oscurando la tua carcassa per proteggerla, per proteggere quel che ancora è restato intero.
“Nascondo quel che è rimasto di me stesso Ma ora il tempo sta scadendo e sono ancora in questo posto”
Non so perchè ho sempre pensato a questa interpretazione, il bello di certi testi è proprio questo, ti si modellano addosso, ti entrano nell’anima e non puoi più farne a meno. Pensando al tempo e alla sua fine, se di fine si può parlare, nascondi quello che ti è rimasto attaccato di buono dopo l’ultimo scontro con la vita, seppellisci quella parte di te per non rischiare di perderla del tutto ma la linea è sottile e così facendo rischi di rinunciare a questo luogo e a questo tempo. Potresti pagare un prezzo molto più alto di quanto quella parte di te vorrebbe, la tua anima che si arrende e ormai sepolta, non è più in grado di protestare.
Per Kaos il seguente passaggio è forse una provocazione verso Dio? Verso la promessa di un paradiso dove il dolore non esiste nonostante il peso di essere giudicati tutti colpevoli dalla nascita, macchiati dal peccato originale.
“Il resto è sentenza che mi ha visto già colpevole Insisto su un punto debole: sto Dio c’ha troppe regole”
Ci si potrebbe domandare come può la semplicità dell’essere, dell’uno nel tutto, sottostare alla complessità imposta dalla religione che appare sempre più umanizzata, sempre più subordinata al pensiero dell’uomo con tutti i suoi difetti, sempre più lontana da quello che dovrebbe rappresentare, specchio della vera essenza di Dio.
Segue una delle considerazioni più comuni, una delle classiche domande che non è possibile evitare nel disquisire sull’esistenza di un Dio: perchè mai avrebbe creato il male? Credo sia capitato a tutti di chiederselo almeno una volta nella vita e anche il passo successivo viene abbastanza naturale, il rendersi conto di non desiderare il perdono di nessuno perchè la colpa che ci è stata tramandata, l’affronto commesso dai progenitori dell’umanità, non sembra nemmeno lontanamente paragonabile alla cattiveria e all’ingiustizia che caratterizzano il nostro mondo terreno, considerato appunto un inferno fin troppo reale e tangibile.
Con paradiso artificiale potrebbe far riferimento sia alla ricerca di un benessere riprodotto e sintetico, sia alla messa in discussione della sua vera esistenza, tornando al discorso delle imposizioni religiose e all’attribuzione antropomorfa che ne deriva.
Un’altro passaggio che risulta immediato è il constatare quanto tutto appaia capovolto e privo di ogni logica mentre si cerca di comprendere la sua legge che di nuovo, non fa pensare a un qualcosa di sacro e divino, ma si mostra più funzionale all’egoismo della nostra civiltà e alla sua viscerale necessità di dominio.
Kaos conclude la prima strofa sottolineando una contraddizione che può passare inosservata, nel Padre Nostro si recita: “non indurci in tentazione ma liberaci dal male” anche se da sempre ci viene insegnato che a tentarci è invece il maligno. Un’altro dubbio che sorge spontaneo riguarda proprio la traduzione dal greco di quel verso, che è stata oggetto di controversia. Alcuni ritengono sia esatta l’originale, tradotta letteralmente con il verbo “indurre” mentre per altri andrebbe sostituita con la più morbida e probabilmente politicamente corretta: “non abbandonarci nella tentazione”. Sarà che si adatta sicuramente meglio alla narrazione della nostra cara Diocesi? Perchè mettere in dubbio la correttezza della traduzione proprio quando iniziano a sollevarsi le obiezioni che fanno emergere le incongruenze con alcune parti della versione cattolica ufficiale? Uno spunto per approfondire.
Arriviamo così a riflettere sulla differenza tra due elementi che potrebbero essere considerati una cosa sola ma sembrano sempre più distanti l’uno dall’altro. Da una parte la Chiesa come istituzione con tutti i coinvolgimenti che ne derivano, dall’ancestrale bisogno di controllo al più moderno e capitalistico interesse economico, la Chiesa strettamente legata all’uomo e di conseguenza inscindibile dalla sua innata corruttibilità. Dall’altra parte la sacralitàdella religione. Possono apparire come linee parallele che osservate da una particolare prospettiva sembrano sovrapporsi ma in realtà non si incontrano mai veramente.
Il ritornello parte con le parole che si pronunciano mentre si fa il segno della croce e racchiude nella frase successiva tutte le perplessità esposte nella canzone, Kaos fa riferimento ad un equivoco e si domanda quanto di veramente sacro ci sia in questo credo, che si trova in una situazione sempre più precaria. Siamo immersi nelle tentazioni con dei comandamenti da osservare, siamo istigati a peccare, minacciati dalle fiamme e allo stesso tempo ricattati con la promessa della vita eterna.
Si apre la seconda strofa riproponendo un verso sul peccato originale e introducendo il libero arbitrio che non può di certo essere esercitato dal bambino nel momento del suo battesimo. Allo stesso modo, non è stato interpellato nessuno, non è servito alcun secondo parere quando è stato creato l’inferno appositamente per punire chi disobbediva, nonostante Dio venga dipinto come misericordioso e disposto a perdonare tutto e tutti, un’altra contraddizione che fa notare Kaos in modo implicito stavolta, solo accostando all’amore infinito la creazione degli inferi.
Nel verso successivo quel “Dov’era?” potrebbe riferirsi di nuovo al concetto di libero arbitrio ma potrebbe anche essere rivolto direttamente a Dio, che nei momenti difficili viene invocato spesso e in mancanza di un segno ci si rassegna alla perdita della fede, alla scomparsa di ogni speranza.
Citando De Andrè:
“Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano con un coltello piantato nel fianco, gridai la mia pena e il suo nome. Ma forse era stanco forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano.”
Spesso quando si soffre a causa dei comportamenti “umani” ci si interroga sulla fede, il pensiero vola verso l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, la domanda sorge quindi spontanea, se davvero siamo le sue copie alberga anche in lui, come in noi, la parte oscura che è artefice o che permette le più ignobili atrocità? Su questa linea arriviamo ad analizzare la figura di Lucifero che viene presentata dalla Chiesa come oltraggiosa e sbagliata.
Premetto, non è mia intenzione urtare la sensibilità di nessuno, non ho risposte in tasca e quello che sto per scrivere ha per me una connotazione esclusivamente simbolica e figurativa. Cercando di mettere da parte ogni preconcetto, senza soffermarci a speculare sulle varie teorie riguardanti le differenze tra Satana e l’angelo caduto, prendendo in esame solo ed esclusivamente i “fatti” che la Bibbia ci narra e l’interpretazione del Cristianesimo, si potrebbe in effetti considerare il “portatore di luce”, appunto, come quello che appare: un semplice rivoluzionario, un dissidente che si è ribellato ed è stato esiliato. Che abbia cercato di aprire gli occhi dell’uomo sull’illusione nella quale viveva la sua esistenza? Tentandolo con quel frutto proibito, con l’albero della conoscenza? Anche se può far inorridire perchè inverte ogni prospettiva, viene quasi spontaneo azzardare un paragone tra il regno dei cieli e il nostro sistema attuale, che mette al rogo chi dissente e chi è in cerca di verità.
Non poteva mancare una forte critica alla Chiesa. Nonostante le belle parole scritte sul breviario a proposito degli emarginati credo che nemmeno il più convinto credente possa negare la presenza di questa forbice “invisibile” che sta dividendo i pochissimi ricchi dai moltissimi poveri. Innegabili anche i rapporti con lo Stato e il sangue che è stato versato negli anni tra crociate e terribili delitti isolati, come non si può negare la sconfinata ricchezza in ballo.
Una sera, gironzolando a Roma, misi qualche moneta nel cappello di un senzatetto, uno che in strada ci viveva davvero, non uno di quelli con le scarpe in ordine. Il mattino dopo mi ritrovai malauguratamente incastrata nei musei del Vaticano, in un soleggiato giorno di primavera, quando in realtà avrei voluto essere altrove, a Parco Savello magari…se non direttamente verso Roma Sud, al Villaggio Globale magari. Ripensai alle scarpe di quell’uomo e l’infinita quantità di oro sparsa in ogni angolo mi parve indecente e mi fece venire la nausea, circondata da tutta quella opprimente magnificenza e da quello sfarzo asfissiante…quasi mi mancò l’aria. Sono passati 15 anni e ancora ricordo, come fosse ieri, quel fastidio che grattava dall’interno e quella pressione che percepivo dall’esterno. Iniziai quindi ad allungare il passo verso la porta con la freccia che indicava l’uscita, ma per ogni salone attraversato, dopo ogni fottuto corridoio, ecco una nuova fottuta porta con attaccata una nuova fottuta freccia. Questa cosa amplificò le mie brutte sensazioni e alla fine mi spazientii, iniziai a correre. Ve le immaginate le espressioni sui volti dei turisti? Finalmente fuori, presi una boccata d’aria e sgattaiolai nel primo barettino che incontrai per farmi una birra, che in quel momento fu necessaria, come l’ossigeno. Mi resi conto di quanto poco avessi in comune con realtà di quel tipo e di quanto sentissi il bisogno di allontanarmi. Come Kaos, preferii la scomunica. Aneddoto finito, possiamo andare avanti.
Quando fa riferimento al “disegno più grande” credo voglia andare oltre i recinti che la religione alza, per avvicinarsi alla vera essenza, per tentare di capire davvero chi siamo e perchè siamo qui. I quesiti si moltiplicano perchè più ci si sforza di comprendere ma soprattutto più si crede di capire, maggiori saranno gli interrogativi. Il sangue sulla lapide che si espande può rappresentare proprio l’efferratezza dei peccati della Chiesa ma essendo collocato appena dopo le domande che aumentano inesorabilmente con la consapevolezza, può allo stesso tempo essere paragonato alla sete di conoscenza che accomuna chi è in fase di ricerca da una vita.
“Penitenziatige” è l’abbreviazione in volgare di questa frase latina: «Poenitentiam agite, appropinquavit enim regnum caelorum», significa «Fate penitenza, ché il regno dei cieli è vicino» e considerati gli spargimenti di sangue sopracitati, non ha bisogno di alcun commento.
La terza strofa parte con un ultimatum che Kaos sembra dare a se stesso, rompere definitivamente e allontanarsi quindi per sempre dal mondo religioso o decidere di restarci incarnando le sue contraddizioni. Ci mette un millesimo di secondo a scegliere, dopo tanto implorare e chissà quanti tentativi, dice basta, vivere una vita col collare per un’evanescente promessa di pace, anche se tra sicurezze ed agi, non è facilmente accettabile e sopportabile da tutti, inoltre è arrivato a pensare che ci sia davvero poco di “concreto” in quanto professa la religione, vista più come un’antica forma di controllo collaudata nei secoli, che come la vera espressione del divino.
Torniamo alla ricerca della verità che può sopraffare e consumare se non viene vissuta e gestita con lo spirito adatto a decifrare e a metabolizzare la crescita, se non si è disposti ogni tanto a lasciar andare, a volte ad accettare di tornarci quando sarà il momento e soprattutto ad avere la mente tanto aperta da riuscire a mettere continuamente in discussione se stessi e tutte le proprie certezze, per superare quindi ogni condizionamento, interno od esterno che sia.
Da sempre l’uomo detta legge provando a far passare le sue “verità” come assolute, tentando di nascondere quelle meno funzionali alla sua visione del mondo o peggio, ai suoi interessi, cercando di sopprimere tutte le alternative scomode. Può essere dovuto ad un subdolo meccanismo mentale che ci spinge a voler avere conferma della nostra lettura? A volerla rinforzare attraverso l’imposizione?
“In girum imus nocte et consumimur igni” è una frase latina palindroma, che da destra come da sinistra significa “Giriamo in tondo nel buio e siamo divorati dal fuoco”.
Lascio all’ultimo verso libera interpretazione anche perchè la mia si deduce facilmente dai paragrafi sopra e credo di essermi già dilungata troppo come al solito.
Ai concerti le voci si sovrappongono, si uniscono, diventano una cosa sola. A volte ho il timore di dimenticare, ma quando ancoro un ricordo come quello fissato nello scatto qui sopra, ricordo anche l’intensità di certi attimi, è indelebile.
“Il mio grido di allarme verso un mondo sordo che non si accorge più di nulla e che sta sempre più perdendo la sua umanità. Ecco, penso che il concetto intorno al quale ruota tutto il disco sia proprio il significato di “essere umano”.
Con queste parole Danno (Simone Eleuteri) dei Colle Der Fomento, considerati uno dei migliori gruppi underground in Italia, racchiude il messaggio principale insito in “Numero 47”, l’album dal quale è tratto il pezzo che analizzeremo, prodotto dagli Artificial Kid (Danno alla voce, StabbyoBoy alle produzioni musicali, DJ Craim agli scratch e Champa alla grafica) uniti proprio da questo unico progetto sperimentale di cyberpunkrap.
CRAIM: “Credo sia il modo migliore per rappresentare quello che ci sta succedendo intorno. Il problema è che la realtà è peggiore della fantasia.”
Qui l’intervista. Ricordo di aver sorriso dall’inizio alla fine mentre leggevo gli aneddoti e i dietro le quinte della produzione.
STABBYOBOY: “In questo periodo sono stressato, sono in fase di recupero psicofisico per 543584384 motivi diversi ma riesco comunque a mettermi sulle mie macchine con l’intento di fare sempre qualcosa. Sto producendo alcuni beat per alcuni soggetti poco raccomandabili della scena romana, DEVO chiudere il disco con Fabiana Fondi per il progetto Liquid Minds e devo trovare un lavoro.“
Trascrivo questo virgolettato perchè lo trovo molto significativo e credo mi possa aiutare a trasmettere, a tentare di far comprendere davvero il seguente concetto: il genere è nato dalla strada e alla strada dovrebbe appartenere. Gli artisti non dovrebbero sentirsi superiori, non dovrebbero essere venerati e strapagati, sono esattamente come noi e come chiunque altro, danno voce alle nostre voci, semplicemente. Parlano con l’arte dell’anima. Con la verità del loro sentire.
Questo, per me, è il vero underground. E in questo caso è pienamente rappresentato.
Non c’è spazio per i dissidenti nel sistema che è andato instaurandosi, l’omologazione è diventata la chiave di volta che permette la continuità dell’ordinamento vigente e il suo definitivo successo. L’ideale sarebbe saltare definitivamente tutto il processo di transizione, trasformandolo nel più efficace e duraturo indottrinamento, è quello che sta succedendo con la scuola? Resa obbligatoria sempre più precocemente, parliamo della Francia dove anche l’homeschooling è sotto attacco.
Le parole del presidente Macron riassumono bene questa visione:
“…la scuola in uno Stato ha il compito di formare un determinato tipo di cittadino con canoni delineati e precettivi.”
In base alla realtà nella quale siamo immersi questa frase può essere percepita in mille modi differenti, come tutto del resto. Non è così strano che, partendo da certi presupposti, alla luce di svariati avvenimenti e considerando la piega assunta dalla società odierna, si possa facilmente ancorare quella nostra particolare percezione al pensiero di Danno che immaginando un futuro non troppo lontano, lastricato da “metallo e plastica” fa sorgere il ragionevole dubbio, se non addirittura la lecita preoccupazione, che possa essere scopo recondito della scuola, intesa come parte integrante del sistema, quello di masticare e risputare fuori i nostri figli coi circuiti fusi e gli occhi già chiusi. Talmente spaesati da non essere più in grado di orientarsi, da non riuscire più a vedere, a riconosce la propria identità, a distinguere le proprie idee da quelle imposte alla collettività. Talmente confusi da non essere più in grado di identificarsi fermamente in se stessi, ritrovandosi catapultati in un mondo sempre più artificiale e fittizio. Siamo così lontani dallo scenario distopico che immaginó Danno?
Il controllo di corpo e mente fin dall’incubazione, la volontà e il vantaggio nel mantenere la popolazione in una sorta di limbo glaciale dal quale risulta difficile uscire. Le sinapsi rallentano, reagire diventa arduo se calcoliamo la pressione esercitata dalle continue e subdole minacce volte ad imporre un’unica strada percorribile, appositamente tracciata per inseguire acriticamente il progresso fine a sé stesso. Una strada ben delineata, da alti muri laterali, per non rischiare che qualcuno finisca fuori tracciatoaprendo un varco nell’inesplorato e dimostrando che è possibile percorrere sentieri diversi da quelli già battutti, potrebbero esserci dei rischi e chi sceglie di assumersi la responsailità di tali incognite è semplicemente giudicato pazzo, un folle che necessita di essere protetto da sé stesso, deve essere ordinatamente riportato sulla retta e prestabilita via. Forse troveremo qualche cartello qua e là che potrebbe darci l’illusione di avere diritto alla libera scelta ma cammineremo sempre in sicurezza verso la medesima meta. Non abbiamo più la possibilità di decidere cosa sia meglio per noi, nè possiamo concederci il lusso di sbagliare da soli.
“Il sistema è industria, azienda, informazione”
Concetto perfettamente chiaro, che merita però di essere sottolineato nella sua semplicità. Segue una forte critica all’automazione e alla meccanizzazione industriale che vengono riproposte e si riproducono invadendo anche altri ambiti della vita, contesti che non dovrebbero essere sfiorati da questo genere di dinamiche, che non dovrebbero essere privati di quell’umanità e di quelle emozioni che li rendono speciali, pur mantenendo le caratteristiche “imperfezioni” che contraddistinguono i sentimenti, e forse proprio per questo, scongiurano possibili derive.
Come per l’evoluzione, ritorna il concetto del sistema fine a sé stesso, che per continuare a esistere e a perpetuarsi ha bisogno di elementi adatti a sostenerne il paradigma. Con questa consapevolezza mette in pratica tutto ciò che facilita la sua realizzazione e indirizza le necessità a lui funzionali. Getta le basi per la nascità di un nuovo tipo di uomo, generazioni che da subito vivranno al suo servizio.
“Un grande cuore freddo di titanio sotto una membrana umida” Ed ecco tutta la passione di Danno per il cyber racchiusa in una sola riga, questo mi rimanda col pensiero a parecchi giochi di parole che ho amato e ancora rimango attonita di fronte all’abilità di esprimere, ma soprattutto di far arrivare dall’altra parte, dritto al punto, un concetto, una sensazione, un pezzo di anima.
Ammiro quella capacità di sintesi e riuscirci con una sola rima è qualcosa di estremamente bello e inspiegabilmente intenso. Continuiamo con un trucchetto che può essere riscontrato in svariati campi, a partire dalla tecnologia. Il piacere che si riceve da una notifica si trasforma facilmente in dipendenza se non si utilizzano correttamente i dispositivi di cui si dispone e se non si è sufficientemente cauti. Questo meccanismo va sicuramente a favore di chi lo utilizza e l’obbedienza, consapevole o meno, potrebbe essere considerata come un’ottima moneta di scambio.
Ogni voce fuori dal coro infastidisce e a volte è ritenuta potenzialmente pericolosa, da eliminare o strumentalizzare in base alle situazioni, questo è un passaggio essenziale per evitare che il castello di carta fatto di scientismo e congetture, tenuto in piedi nonostante le sconsiderate e folli corse verso il nulla, crolli sotto lo sguardo critico e autonomamente pensante di quei coraggiosi occhi pronti a mettere in discussione ogni loro apparente certezza con l’umiltà che serve ad ammettere quanto siano stati precipitosi nel venerare qualcosa di decisamente discutibile, quanto siano stati presuntuosi nel sentenziare su tutto ciò che credevano di sapere arrivando infine ad essere pronti a riconoscere quanto poco in realtà sappiano davvero.
Questi freddi calcolatori ai quali è stato sottratto il buon senso necessiterebbero di un forte scossone, per recuperare l’umanità che va dissolvendosi nel calcolo delle probabilità, tentando di scovare l’ultimo dissidente rimasto in piedi nel suo disperato tentativo, quello di passare tra le maglie sempre più strette del sistema. Probabilmente Danno ci aveva visto lungo perchè il suo ultimo verso non potrebbe essere più attuale.
“In questa caccia all’uomo su scala globale Questo è l’ultimo passo, questo è l’atto finale”
Nato a Roma il 23 gennaio 1991. Fin da bambino prende lezioni di musica, imparando anche a suonare pianoforte e chitarra. Si avvicina all’hip hop verso i 12-13 anni, grazie alle canzoni di Kaos e forse, anche grazie a questo, cresce a testa alta, forte nei valori. A 17 anni, in seguito a problemi finanziari della famiglia, va via di casa, mantenendosi da solo. Si è presentato sulla scena rap italiana con un video su YouTube, indossava un passamontagna, divenuto poi il suo simbolo di riconoscimento. Gli fu assegnato da Esa il premio della Critica visti i consensi raggiunti. Il suo primo lavoro è Musica Cicatrene Mixtape.
Mezzosangue apre la strofa con l’impianto che fa vibrare i cuori e fischiare i timpani, parte carico sulla traccia pensando a quanto è facile perdere di vista certe facce, le lasci andare, le dimentichi ed è come se non avessero mai incontrato il tuo sguardo, come se non fossero mai esistite. Ci sono altri visi che invece si marchiano indelebili nei tuoi ricordi e anche se li perdi non te li scordi mai. Questo passaggio può essere più plausibilmente interpretato con un’accezione positiva, se ci riferiamo alle persone che hanno significato molto per noi, quelle che ci hanno lasciato qualcosa di talmente grande che sarebbe tragico scordarne i lineamenti, lasciar dissolvere il ricordo di quei veri rapporti, mentre anche l’ultimo dettaglio va ad estinguersi. Negativamente parlando si potrebbe riferire anche a quei volti che ti perseguitano mentre pensi che daresti qualsiasi cosa per poter dimenticare. Potrebbe rientrare in questa categoria la gente che crede di sapere tutto di te, sempre in prima linea a giudicare e sempre pronta a dispensare consigli che lei stessa evita di seguire.
Troviamo un bel riferimento alla vita, paragonata all’avventura di Ulisse verso la sua lontana Itaca. Trovare un solido appiglio sarà di vitale importanza per affrontare e superare i momenti più burrascosi del nostro viaggio. Ci serviranno valori ben consolidati e radici profonde per non essere trascinati via dalla corrente, non sarà sufficiente la superficialità di una zattera, anche se leggeri, non saranno i pensieri frivoli a tenerci a galla. Potremmo vivere situazioni difficili, momenti che potrebbero minacciare la nostra quiete e il nostro equilibrio, forse pagheremo per qualcosa che abbiamo fatto in passato? Salderemo il conto della persona che ci siamo lasciati alle spalle? Il karma di chi eravamo. Chi può dirlo con certezza?
In alcuni momenti, come questo, per Mezzo e per tutti quelli che si rispecchiano nelle sue parole, l’unica figura autorizzata a sentenziare su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è il barman che si ha di fronte, del quale vediamo solo il busto sfuocato svettare sopra al bancone lucido. L’unico alchimista che miscelando ad arte, in maniera sublime, è in grado di fermare per un po’ quel trambusto che non ci abbandona mai. Dopo svariati giri, per qualche ora è pace. Hakuna Matata.
Appena il tempo di iniziare a godersi la tranquillità con gli unici due amici che siamo certi non ci abbandonerebbero mai, entrambi Jack.
Uno che fa compagnia al ghiaccio nel bicchiere e rende il mondo ovattato, l’altro alla fine delle cuffie è intento a regalare note di conforto, come lui solo sa fare.
Il tutto prima che la dura realtà irrompa di nuovo rumorosa e prepotente come una raffica di vento gelido a ricordarci che non abbiamo ancora fatto rientro al porto. Non ancora.
I versi di Mezzosangue non sono solo poesia, emozione ed empatia, sono la sua stessa vita, sono i suoi sacrifici che si riversano dentro al foglio vuoto, colmandolo.
L’interludio diviso in due parti è l’estratto di Waking Life proposto stamattina per la nostra settimana tematica! Per l’occasione riproponiamo e rivisitiamo una delle riflessioni del nostro Mer Curio. Quando è stata l’ultima volta che ci siamo alzati allegri, con la voglia di uscire di casa? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo sorriso così, senza alcun motivo apparente? Quando è stata l’ultima volta che siamo rientrati tardi, sotto quella pioggerella leggera? E nel pieno di un diluvio mentre i fulmini sembravano crepare il cielo? Quando è stata l’ultima volta che siamo stati svegli a cantare fino al mattino dimenticando l’ora, il lavoro e l’affitto? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo vissuto con ardente passione? Assumendoci la responsabilità di quello che siamo davvero. Accogliendo e accettando il rischio inscindibile da alcune delle azioni essenziali intraprese per raggiungere ciò che vogliamo davvero. Arrivando fino in fondo, tagliando i traguardi che ci siamo prefissati ed essendo pienamente soddisfatti del risultato.
L’esistenzialismo come spinta alla crescita personale e alla comprensione strettamente individuale del vivere potrebbe essere molto più concreto di quanto immaginiamo, tutt’altro che inutile e totalmente opposto al senso di disperazione a cui invece viene associato. Spesso ci si può sentire come gocce in un’infinita distesa d’acqua e lo sconforto nel constatare quanta poca influenza esercitiamo come singoli individui può prendere il sopravvento.
Il monologo proposto fa riflettere e dona speranza. L’apparente inutilità legata al peso delle nostre decisioni personali crea precedenti ed esempi che, soprattutto se presi singolarmente e isolati, per quanto piccoli e insignificanti possano sembrare, finiscono per essere fatti di osmio, il metallo con la maggior massa per unità di volume e con questa densità le nostre scelte pesano molto più di quanto siamo disposti a credere.
Questo fa la differenza. Noi possiamo fare la differenza. Se solo la smettessimo di sentirci “vittime di una concomitanza di forze”.
Se solo la smettessimo di credere che siano gli eventi a decidere per noi. Se solo la smettessimo di nasconderci dietro al “tanto non cambia niente”. Perchè sempre e solo noi abbiamo l’ultima parola su chi decidiamo di essere.
La seconda strofa si apre sottolineando la tendenza all’insoddisfazione denunciata nell’interludio e facendo riferimento alla dannosità di certi comportamenti umani, parla di autodistruzione.
“Non basta dirlo per sfatarlo” non è sufficiente essere informati sui fatti, imparare a livello nozionistico, pensare di sapere o avere la presunzione di conoscere. Si rischia comunque di superare il limite. Potrebbe anche voler mettere l’accento sull’importanza dell’esperienza diretta e sulla necessità di interiorizzare i concetti per raggiungere la piena consapevolezza.
“Perdi tutto, prendi tutto fino all’overdose” Mezzo sembra riconoscere quanto le sue rime possano risultare impegnative e a tratti gravose perchè spesso tocca argomenti seri o tristi, sembra riconoscere che le sue parole possano essere definite pungenti perchè spesso si occupa di tematiche scomode e infine si identifica in Keyser Söze, forse sentendosi sempre giudicato colpevole come il personaggio del film “I soliti sospetti”. Quando il livello di sopportazione è al limite accade spesso di essere travolti dalla voglia di scappare, di andarsene semplicemente via.
Probabilmente sarebbe più facile dire addio se solo servisse a risolvere i problemi e a volte condivido la sua esasperazione, a volte le persone provano a capirci, a volte siamo noi a fare il primo passo tentando di spiegare, con l’intenzione di lasciare un pezzetto di noi stessi agli altri quando in realtà siamo i primi a non comprenderci, ad avere nell’anima dei punti ciechi vasti come oceani inesplorati. Segue qualche verso incazzato con Dio o si tratta solo di un intercalare? Può essere la presa di coscienza di una resa, accettare di non avere più le forze per credere ancora che a qualcuno importi dei tuoi pensieri e lasciare andare tutto, perdendo ogni contatto. Può essere uno sfogo per non essersi mai sentito ascoltato, per non aver ancora ricevuto le risposte alle sue domande.
“Ti ho chiesto chi è che vince se vinco contro me stesso” può denotare il suo conflitto interiore, il bisogno di comprensione, la voglia di migliorarsi sempre. In definitiva non ha molta importanza sapere con chi ce l’abbia di preciso, a chi si riferisca, visto che chiunque sia l’interessato, è sparito nel nulla, lasciandolo solo, come hanno fatto tutti in questo mondo spietato.
Lascio libera interpretazione all’ultima sua rima, un po’ perchè la trovo eloquente, un po’ perchè mi piace molto l’idea di concludere lasciando aleggiare nell’aria i suoi versi.
I XVI Religion (in precedenza 16 Barre) sono un gruppo rap underground. Lunardi Stefano (John Princekin, mc-producer), Di Benedetto Andrea (Benni,mc) e Brazzorotto Luca (Jack Burton, beat maker). Il gruppo è legato a radici fondamentalmente rap ma non è fermo ad un genere, spazia in tutti gli orizzonti musicali, fino a collaborare con gruppi electro, rock, sperimentali. I testi, graffiati sulla base, sono legati alle tematiche del nuovo ordine mondiale, dell’apertura mentale e del controllo da parte di entità superiori. Testi visionari che accomunano le tematiche della società moderna a mondi paralleli di inganni e mostri nascosti nell’ombra.
“Cantiamo le gesta di umani..umani coscienti nell’incubo indotto.”
L’intro è di Maelle, che apre il pezzo con la sua splendida voce, condividendo un’inquietudine che contraddistingue chi non si accontenta, chi non si rassegna al semplice trascinarsi, in questo particolare contesto può rappresentare chi desidera ardentemente dare significato ai propri passi nell’esistenza, ciò è maggiormente significativo se parliamo di un periodo di transizione e cambiamento, caratterizzato dal dubbio e dall’incertezza, come quello che stiamo attraverando ora.
La prima strofa è di Benni, che parte con il filo conduttore della nostra settimana tematica, ringraziando il sogno perchè consapevole della sua importanza. Troviamo qui un’altro elemento che potrebbe andare a ridefinire il profilo tracciato poco più su, un’altro punto che accomuna chi non sa ancora con precisione dove andrà e cosa farà domani. Il sogno. Perchè è necessario? Perchè ci dona la speranza, la voglia, la forza e la caparbietà che servono per creare il mondo in cui scegliamo di esistere. Attori anzichè comparse. Vivere anzichè sopravvivere.
Avere fede significa credere in qualcosa e forse, in un’epoca tanto materialista quale la nostra, stringere la mano ad un sognatore potrebbe davvero essere ciò di cui abbiamo bisogno, potrebbe essere difficile da spezzare una catena di mani strette con la forza che deriva da teste ostinate a voler guardare sempre oltre le nubi. Una volta uniti potremmo andarcene via, via da tutto quello che riteniamo sbagliato, via da tutto quello che ci fa soffrire, via e basta. “Obbligheremo le stelle a danzare per noi”, spingeremo l’universo a intonare quella melodia che ci fa vibrare all’unisono. “Anche se il cosmo ci rifiuta l’odio ci cattura e il vuoto fa paura”, non importa se questo mondo non è più adatto a noi, forse non lo è mai stato, non importa se l’odio a volte prende il sopravvento e non importa se il futuro ci spaventa. Abbiamo l’ardore del fuoco dalla nostra parte, che cauterizza le nostre ferite e può fornirci tutta l’energia necessaria per resistere. Continua la strofa, descrivendo queste righe per quello che sono, i dialoghi interiori di semplici sognatori, lontani anni luce da alcune delle dinamiche legate alla scena. Niente a che vedere con la fama, con i soldi, con superficialità e apparenza. Tutto un altro modo di porsi. Lontano dai riflettori, appunto.
Un modo per sentirsi vivi e non rischiare di sprecare il proprio tempo, così prezioso, rubandolo irrimediabilmente a tutti quegli attimi che ci fanno sorridere e che vorremmo poter ricordare vicini e sentire vividi nei nostri cuori. A questo punto Benni sembra sfogare la sua rabbia per non esserersi mai sentito compreso e capito da chi ritiene già morto, succube di questa realtà deviata e orribile. Non è difficile rispecchiarsi nei suoi versi, dare più importanza all’emozione che può racchiudere un semplice profumo, sentirsi legati all’universo in maniera più profonda e rendersi conto di non aver mai rimpianto un gesto d’amore. Conclude con quello che sembra avere tutta l’aria di un conflitto interiore, vista la semiautomatica sotto il mento, i demoni nella sua testa che si risvegliano quando è il corpo a riposare rappresentano la parte oscura di ognuno di noi?
Nel ritornello torna Maelle con i dubbi sul futuro, non sappiamo nè cosa faremo, nè dove andremo, ma una cosa è certa, sappiamo da dove siamo partiti, dal volume delle casse.
John Princekin apre la seconda strofa concretizzando il concetto uscito dall’analisi sull’importanza del sogno in questa realtà sempre più legata al mondo materiale. Il viaggio astrale come mezzo per arrivare a comprendere davvero il significato che si cela dietro a queste barre.
L’inutilità che si riscontra nel tentativo di colpire qualcosa di immateriale restando con i piedi saldamente piantati al suolo. La ricerca dei nostri stessi valori negli occhi degli altri, la volontà di evitare le persone tossiche, quelle che non ci comprendono, quelle già morte, quelle che fingono, indossando “occhi felici”.
L’essere vivi, al contrario, colma gli occhi di lacrime e non di rado. Nonostante l’annebbiamento della vista risulta facile notare le pesanti catene fatte di egoismo, competizione e interessi strette attorno alle caviglie di questi esseri definiti da Princekin non umani, di conseguenza non degni, da non considerare nemmeno insomma. Questo tipo di distacco è un atteggiamento necessario, da mettere in pratica senza alcun dispiacere.
“Io non tradisco con il lapis. Faccio rap che è una religione che si prega sempre gratis” Un piccolo elogio ai veri valori del rap, tra i quali la lealtà e il disinteresse verso il mero guadagno. Da buoni sognatori, doniamo e riceviamo speranza, con un auspicio, siamo tanti e se trovassimo il modo per unirci, potremmo tenere sotto scacco chi minaccia la nostra legittima libertà.
“Ogni nuova persona che s’avvicina è una lucina nel buio che avanza” perciò non calcoliamo chi non merita la nostra attenzione e affrontiamo tutto e tutti a testa alta, senza paura.
“Io sono nato dal nulla e non mi spaventa niente” Siamo quello che siamo grazie a noi stessi, siamo arrivati qui da soli, dal basso e partendo da zero, per questo nulla ci dovrebbe spaventare, perchè continueremo così, come abbiamo sempre fatto. Forse un’allusione al pensiero di Schopenhauer, al nulla dell’universo, quindi tutt’altra interpretazione? Una cosa è certa, possono tentare di farci fuori, provarci di nuovo e provarci ancora…queste note basse faranno sempre vibrare i nostri cuori a tempo, con la musica, ricordandoci di restare umani, in ogni istante.