Free Party
Non è possibile parlare davvero di underground senza far riferimento al rave.
Il termine mondo è in questo caso tanto azzeccato quanto necessario per cercare di fornire una panoramica sufficientemente ampia e una visione quanto più possibile completa del fenomeno.
La “festa”, come viene semplicemente e comunemente chiamate da chi la vive, è in effetti, senza ombra di dubbio, un universo parallelo.
“La caratteristica più sorprendente dei rave è che essi sono riusciti a crearsi un mondo ed un linguaggio tanto particolari da generare un vero e proprio fenomeno di cultura.”
Questa subcultura è stata dapprima totalmente ignorata e successivamente mal raccontata, fino ad arrivare alla tipica polarizzazione delle opinioni.
Posso capire sia apparentemente incomprensibile e difficile da credere ma posso anche assicurare che alla base c’è molto più di quanto si possa superficialmente immaginare.
E’ sopravvissuta una parte della filosofia delle origini nata negli anni 60, questo almeno fino al 2011, quando ho scelto, in parte dolorosamente, di allontanarmi da quel mondo che nonostante le sue contraddizioni e prima della sua degenerazione celava un grande potenziale.
Oltre al fastidio per il turbamento dell’ordine pubblico causato da alcune, e ripeto, alcune di queste realtà, c’era di più, oltre alle sacrosante lamentele per certi comportamenti poco opportuni, se non assolutamente inaccettabili di alcuni, e sottolineo di nuovo, alcuni personaggi al limite della follia…c’era dell’altro.
Dietro all’immagine generalizzata e strumentalizzata che ha dato vita allo stereotipo si nascondeva un universo di infinite sfaccettature.
Cercherò quindi di rendere visibili anche gli angoli che restano fuori dai coni di luce, direzionati dalle mani che impugnano le torce.
Chiunque sia incappato in un servizio del mainstream sull’argomento può essersi facilmente fatto un’idea riguardo le mie sopracitate allusioni, accenni che per ora, rimarranno tali per un semplice motivo: ci ha già pensato la stampa di regime a mettere l’accento sulle criticità e sui problemi legati alle feste, con il suo solito modus operandi, quell’abile lavoro di taglia e cuci montato ad arte tra distorsioni e omissioni.
La situazione non migliora nemmeno se ci si avventura in rete digitando la parola “rave” e aprendo a caso le pagine che ci vengono proposte, anche in questo caso è probabile cadere nel tranello del giudizio basato sull’incompletezza degli elementi, a volte pure snaturati, che rischiano di andare a creare dei preconcetti come minimo limitanti se non totalmente alterati. Meccanismo che si ripete di continuo, non mi riferisco solo al tema trattato, è una dinamica diffusa ovunque.
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Partendo dal significato
Rave significa scatenarsi in modo eccitato e incontrollato ma è anche il parlare o lo scrivere di qualcosa con grande entusiasmo, ed è proprio ciò che mi sto accingendo a fare.
Sorrido nel rendermi conto che, a parte qualche documentario di nicchia e qualche blog, la fonte alla quale dobbiamo la maggiore esaustività e oserei aggiungere imparzialità sul tema è wikipedia, alla voce “free party” ,credo basti per rendersi conto dell’immensa lacuna comunicativa esistente.
“Nella sua connotazione più politicizzata questo fenomeno vuole creare una zona libera dai grossi flussi economici e dai tempi della società civile, in cui la musica può andare avanti per interi giorni, ottenuta mediante la pratica dell’occupazione e regolata attraverso la possibilità di accedervi liberamente.
L’organizzazione di questi eventi non riconosce, e spesso contesta, la legalità come limite applicabile alla propria possibilità di articolazione e le forme di socialità offerte e comunemente imposte.” Direi che questa è un ottima definizione.
Uno degli scopi principali era quello di staccarsi completamente dalle dinamiche economiche che facevano girare l’industria del “divertimento”.
Pagare cifre esorbitanti un biglietto d’ingresso per ballare solo qualche ora accanto a persone che non sentivi simili a te, magari ringraziando se ti concedevano un cocktail annacquato, la musica che non ti rispecchiava, il tragitto dal guardaroba al bar visto come una passerella, per sfoggiare l’ultimo paio di jeans Armani anche mentre ci si dirige verso il bagno per ritoccarsi la maschera, tornare in pista ad idolatrare il DJ come se camminasse senza toccare il suolo.
Anche no, grazie.
La rappresentazione perfetta di questa società gerarchica fondata sull’apparenza più che sulla sostanza.
Non è mia intenzione generalizzare, non credo fosse così ovunque e non credo nemmeno fosse così per tutti.
Parlo basandomi sulla mia personale esperienza e sulle mie sensazioni che di fatto, sono queste.
Crescendo ho imparato ad apprezzare anche alcune serate nei locali, a concentrarmi solo su ciò che di buono vedevo e a pagare riconoscendo il valore di certi artisti ma c’è stato qualcosa allora, molto più di qualcosa, che mi ha spinto con una forza prorompente verso il mondo dei rave quando ero ancora una ragazzina.
Ho sempre preferito il fango sugli anfibi alla lacca sulle scarpe immacolate, la polvere che i subwoofer mi lasciavano sulle mani alle tracce di fondotinta e i jeans strappati a quelli firmati, non che potessi permettermeli ma anche se avessi potuto, avrei speso quei soldi in altro, questo poco ma sicuro.
Ho sempre visto la festa come un luogo dove potermi esprimere liberamente, come ciò che sentivo di essere in quel momento, senza correre il rischio di farmi sputare addosso giudizi gratuiti e non richiesti.
Un luogo aperto di ricerca e sostanza, non una scatola di imposizioni e di esteriorità.
Un luogo dove non fregava un cazzo a nessuno se la mattina avevo quel poco di matita per gli occhi che mettevo sbavata fino alle guance perchè avevo riso fino alle lacrime e infine, con i DJ al massimo ci scherzavo condividendo una birra, non mi pare di ricordarli mentre camminavano senza toccare il suolo dato che avevano le scarpe infangate quanto le mie, così come quelle di tutti.
Si creava perciò una vera e propria alternativa al business dei locali, ci si trovava spesso nelle fabbriche dismesse che, oltre alla loro funzionalità in quanto situate in periferia e di conseguenza perfette per ospitare molte persone e kilowatt di suono senza dare troppo nell’occhio, venivano inizialmente scelte come forma di occupazione simbolicamente legata alla rivendicazione degli spazi destinati ai proletari, spazi che col tempo sono stati abbandonati e dimenticati come è stato “abbandonato e dimenticato”, del resto, anche il proletariato.
Purtroppo è capitato di respirare inconsapevolmente quello stesso amianto che erano costretti a inalare gli operai sottoposti a turni di lavoro estenuanti, esclusi questi “piccoli dettagli”, si ridava vita agli scarti della società consumistica moderna, riappropriandosi di quei luoghi, simbolo di schiavitù e conformismo e dando loro una connotazione diametralmente opposta all’originale.
Il capannone non era più vissuto come una gabbia, emblema dello sfruttamento in nome del mercato, ma come ritrovo di menti e cuori che andavano contro le logiche imposte da quel sistema che la grande industria rappresenta.
“Vengono progettati nuovi significati per i luoghi: vagoni di treni bloccati e fatiscenti diventano anomali salotti per incontrarsi, capannoni, fabbriche in disuso si trasformano in dance hall in cui individualità, appartenenza e radici si fondono in un brulicare di vita.”
I ravers sono essenzialmente considerati dei disadattati irrispettosi che si lasciano alle spalle solo sporcizia e distruzione, sono spesso definiti come dei drogati senza la benchè minima aspirazione (approfondirò in seguito, nei prossimi articoli, il discorso legato alle innegabili criticità e a tutti i valori della filosofia origininaria che è andata a perdersi durante gli anni).
Posso essere d’accordo sul disagio semplicemente perchè di fatto, chi frequentava quel tipo di ambiente era di bassa estrazione sociale, quindi già economicamente ai margini, chi più chi meno.
Ideologicamente contrapposti alla cosiddetta borghesia in sè e a tutto ciò che incarnava, consapevoli riguardo alla fatica che si riscontrava nell’adattarsi e nell’integrarsi totalmente.
Dissento invece sul giudicare a priori i ragazzi come svogliati ed evanescenti ectoplasmi capaci solo di s-ballare e tralasciando alcuni casi limite, vorrei rendere giustizia perlomeno ad alcuni di loro e in particolar modo agli organizzatori.
Per dimostrare e avvalorare questa mia affermazione vorrei porre alcune domande un filo provocatorie, non sono rivolte a nessuno in particolare, forse servono solo per esorcizzare un po’ i pregiudizi che il sistema ha vomitato addosso a chi in realtà non se lo meritava affatto, concedetemelo.
Avete idea del tempo, della fatica e dell’impegno necessari per l’organizzazione di un party totalmente autogestito?
Vi siete soffermati ad osservare un muro di casse spostando lo sguardo dai bancali poggiati a terra per sostenerlo alle cinghie che lo tengono stretto insieme per arrivare poi su fino ai tweeter più alti?
Ma soprattutto, avete mai visto cosa c’è dietro a quei 60 o 70 kilowatt?
Il mio non è un “dietro” solo in senso figurato, mi riferisco a tutta l’attrezzatura: gli amplificatori, i mixer, tutti i rack e le taniche di benzina, i generatori.
Avete idea di quanto pesa un generatore da 10 kilowatt?
Apriamo le porte all’empatia, proviamo a comprendere chi metteva anima e corpo al servizio di un ideale, a chi si prosciugava per far ballare le persone senza pretendere nulla in cambio, disinteressatamente.
– Serviva un luogo adatto per montare, se possibile si faceva un sopralluogo per verificare non ci fossero pericoli e nel caso si tentava di mettere in sicurezza, coprendo almeno i buchi per evitare che, al buio, ci finisse dentro qualcuno.
– Si caricavano i furgoni ed era bene ricordarsi di riempire tutte le taniche per evitare che la benzina scarseggiasse nel pieno della festa, per non doversi fare i km a piedi magari, verso il distributore più vicino, nel cuore della notte, passando per le stradine più sperdute, perdendosi cercando di aggirare le forze dell’ordine appostate all’ingresso per “tenere sotto controllo la situazione”.
– Si faceva il carico per il bar: casse su casse di acqua e birra, qualche superalcolico, qualche stecca di sigarette. Una delle persone più vere e autentiche che abbia mai conosciuto in vita mia ha detto addio agli ammortizzatori della sua punto per divertire e dissetare la gente alle feste.
– Finalmente in viaggio e si arrivava sul posto. Si scaricava tutto, si montavano il sound e il bar con gazebo e tavoli, si appendeva la “scenografia” se ci si era ricordati di caricarla.
– Cominciava il “calvario dell’info”. Rispondi e attacca. Rispondi e attacca. Ore con l’orecchio incollato al telefono a ripetere incessantemente le indicazioni stradali, ore a ripetere la stessa identica frase fatta eccezione per quelle volte che qualcuno ti diceva cose del tipo “Oh ma alla farmacia dobbiamo svoltare a destra o a sinistra?” e tu manco l’avevi vista una farmacia perchè magari eri arrivata dalla direzione opposta, quindi niente, si cercava il modo di aiutare i dispersi a raggiungere il posto.
– Cominciava il “calvario del bar”. Ore ed ore in due o tre dietro a quel tavolo sperando di riuscire a racimolare almeno i soldi della famosa benzina. Sempre i soliti due o tre, stufi marci di ballare davanti alla cassa dei soldi, si bramava la cassa acustica vera e propria e si sperava di veder sbucare qualche volenteroso per il cambio turno perchè quando finalmente quel momento arrivava, eri finalmente libero di ballare seriamente attaccato ai coni. Potevi anche dormire un po’, fino al turno successivo almeno, ma se ti andava bene eri libero fino al momento di smontare, quando si riavvolgeva il nastro rifacendo tutto al contrario.
– Sperando di vedere gli altri apparire al più presto nello specchietto retrovisore, ti dirigevi verso l’autostrada, pregando di non sentire il telefono squillare e di non dover andare a recuperarli in questura perchè i furgoni venivano sequestrati e loro erano a piedi ovviamente, se ti toccava tornare indietro facevi quattro chiacchere coi carabinieri che facevano solo il loro lavoro, ti preparavi psicologicamente al salatissimo preventivo della lettera di dissequestro e tanti saluti al recupero della maledetta benzina perchè tutto il ricavato del bar sarebbe finito nelle tasche dell’avvocato.
Se invece andava tutto bene te ne tornavi a casa sfinita ma felice. Doccia veloce e via a letto.
Le lenzuola pulite che avvolgono le gambe stanche, la morbidezza del materasso dopo minimo 32 ore che non lo vedevi e 8 ore di sonno sono tutto ciò che chiedi, fino alla sveglia delle 7.30 che ti trascina fuori dal sogno riportandoti alla realtà della scuola o del lavoro, che ti ricorda insistentemente di tornare alla tua vita normale.
Si, “normale” qualsiasi cosa significhi.
Mettiamo da parte un attimo i cliché e i luoghi comuni, tra i quali troviamo lo spauracchio del raver sporco, brutto e cattivo.
La maggior parte dei ragazzi che ballavano alle feste anzichè in discoteca conduceva una “normalissima” esistenza, tirando a campare come chiunque altro.
La mattina alle 8 in classe, non sempre in forma smagliante ma presenti.
A volte partivo direttamente con lo zaino pronto per il lunedì e capitava di rileggere qualche capitolo appena arrivata o prima del viaggio di ritorno verso casa, come alla festa qui sotto, caduta proprio il weekend prima degli esami.
Ripassavo per la terza prova mentre l’impianto faceva vibrare la sedia, il camper, i muri e ogni mia singola cellula, mi sono pentita di alcune scelte negli anni, ma se mi ritrovassi catapultata indietro non rinuncerei a quel momento, per niente al mondo.
Alla luce di quanto sopraelencato, come potrebbero dei “disagiati senza la benchè minima aspirazione”, dei drogati buoni a nulla, essere in grado di concepire e realizzare degli eventi di tale portata?
Non ho mai incontrato, in nessun altro ambito, tanta disinteressata passione.
Ai rave ho conosciuto persone che di propositi ne avevano da vendere e non erano dettati dalla più vile ambizione ma erano spinti da un anelito di libertà.
Ricordo un pomeriggio di settembre, l’acqua veniva giù dal cielo “a secchiate”, non sto esagerando, i tergicristalli impostati alla massima velocità faticavano a toglierla dal parabrezza quel tanto che bastava per farmi vedere dove andavo.
Era in programma una festicciola ma nessuno di noi era convinto di ciò che stava facendo, in quelle condizioni metereologiche montare in un bosco sembrava davvero impossibile e le obiezioni sollevate da molti non erano solo lecite, come potevamo farcela?
La situazione era a dir poco assurda ma niente, il fondatore dei Brutal Toys è la persona più ostinata che abbia mai incontrato in vita mia e quella festa si doveva fare, punto.
Siamo partiti in carovana, avevo la patente da un mese, non conoscevo le strade e non vedevo quasi nulla a causa della pioggia, non capivo nemmeno dove finiva la strada e dove iniziava il marciapiede perchè era tutto completamente allagato, ogni rotatoria era una tortura e sudavo freddo mentre tentavo di stare dietro al furgone per non perderlo, visto che non avevo la più pallida idea di dove stessimo andando.
Ero talmente concentrata che l’amica al mio fianco stentava a parlarmi, forse perchè non rispondevo, forse perchè anche lei aveva paura potessi non accorgermi di una rotonda, dalla tensione nemmeno la musica era stata accesa, dopo svariati km in silenzio il tempo che intercorreva tra una secchiata d’acqua e l’altra si allungava, il diluvio è diventato piano piano una pioggerella leggera e quando siamo arrivati a destinazione non pioveva più.
Non so come abbiamo fatto a montare ma alla fine quella dannata festa è riuscita davvero, ed è pure venuta molto bene, contro ogni aspettativa, contro ogni previsione e grazie alla testardaggine di una singola persona.
La mia mente tornava sempre a questo episodio quando sentivo qualcuno che sputava sentenze, definendo il “popolo dei rave” come un branco di delinquenti senza alcuno scopo nella vita.
Come se fossimo tutti uguali. Come se quel giudice improvvisato, autoproclamatosi tale, sapesse per certo quale poteva essere (da leggere con tono ironico/solenne) il vero scopo della vita.
Quale vita? La sua? La nostra?
Come se si sentisse in diritto di dirci cosa ci avrebbe dovuto rendere davvero felici, come se avesse la pretesa di sapere cosa invece ci avrebbe fatto desiderare di morire.
Una laurea, uno status sociale riconosciuto, il posto fisso, una vita in viaggio, un’attico in centro, una casa in campagna, una macchina potente, la fama, l’anonimato, il matrimonio, una relazione stabile, una vita di eccessi, un ideale, un sogno, una passione?
Risposte diverse per anime diverse.
Come si può pensare di essere sulla strada sbagliata se si vive con tanto ardore?
1 COMMENTO
Grande pezzo che fa comprendere meglio cosa c’è dietro alla riuscita di una festa,un mondo sicuramente caotico ma ricco di arte, fantasia e soprattutto estrema passione