Benni apre la prima srtrofa evocando un’immagine relativa al tempo. Sembra voler dar voce a Kaspar Hauser, ricordando la sua prigionia, identificando l’amore come polvere per terra in un penitenziario pare quasi volerci mettere in guardia su qualcosa, scrivendo sotto il ferro di una grata dal centro di Norimberga, dove fu incarcerato. Il sogno di benessere che offre un bagno caldo in un calidario può, in un attimo, facilmente trasformarsi in un calvario. Potrebbe essere questo il suo messaggio? Ci troviamo in un illusorio e fuggente attimo di pace che si regge precario sui vapori inconsistenti di una vasca termale? Seguono rime criptiche che possono far riferimento alla parte oscura, di sè, del vivere terreno.
Nel ritornello John Princekin identifica le loro voci con quelle degli scribi. Messaggeri dai corpi marchiati, dagli occhi sbarrati, sottolineando lo stato di consapevolezza nel quale si trovano.
Altra possibile similitudine che secondo me si può cogliere in questo senso tra il fanciullo d’Europa e i nostri ambasciatori è questa: “il contatto col mondo gli era quasi insopportabile, i suoi sensi così acuti lo mettono a dura prova e se non fosse per la sua eccezionale tempra si sarebbe irrimediabilmente perso, psichicamente”.
John Princekin apre la seconda strofa lanciando sassolini contro l’Opportunity Rover (detto anche Mars Rover, veicolo a motore che viaggia sulla superficie del corpo celeste) e sventola i 3 biglietti di sola andata per la metro dell’Einstein-Rosen (teoria fisica riguardante un cunicolo spazio-temporale, detto anche galleria gravitazionale, un buco nello spazio-tempo einsteiniano che permetterebbe a chi lo attraversa di viaggiare ad una velocità superiore a quella della luce da un punto all’altro dell’universo, consentirebbe anche di viaggiare nel tempo).
“Ho creduto che parlarsi potesse servire A salvarsi dal morire dentro prima di sparire” è pura poesia. Come si interpreta il sublime? Ci vedo tutte le speranze che ha riposto nella sua musica, nel voler lanciare un messaggio, nel voler parlare, oltre che a se stesso, anche all’anima delle persone pure, per non “morire dentro” prima di dissolversi e sparire. Per lasciare un segno? Un’eredità? Oppure perchè le parole in fin dei conti servono a poco?
Prosegue con un riferimento alla battaglia di Blood River (Sudafrica. Le truppe Zulu combattono per la propria terra, vogliono impedire l’insediamento dei coloni Boeri.) Il fiume si tinse di rosso, il sangue degli autoctoni, l’acqua che turbina nel cuore di Princekin è torbida proprio come quella del Blood River, il fatto che giri lungo un’orbita di un’altra fine fa pensare ad un periodo di transizione, ad un cambiamento, soprattutto perchè prosegue dicendo che servirebbe più sorriso. Una denuncia contro il colonialismo in generale o la semplice descrizione di uno stato d’animo? Entrambe le cose? Seguono altre rime a tema esoterico forse riferite a Lord Stanhope? Massone aristocratico nemico di Kaspar.
Conclude facendo una riflessione sul mondo moderno, totalmente inquadrato dalla matematica, partendo dai numeri dell’IBAN (chiaro riferimento all’importanza attribuita ai soldi) lungo la retta di Riemann (funzione matematica) fino ad incontrare un “punto fuori posizione”, qualcosa che non si può quantificare, qualcosa che non si può spiegare con i freddi numeri, con la scienza, che arrivata a questo punto della retta, nega qualsiasi fenomeno per il quale non esistano ancora spiegazioni logiche, razionali o replicabili, pur di non vedere la sua equazione andare in frantumi.
Arriviamo all’ultima strofa di Mezzosangue, apre con una citazione dal Vangelo di Giovanni che può essere vista come una critica verso la Chiesa ma anche come un omaggio a quello che dovrebbe essere il vero significato della fede, quella più pura e genuina, quella del principio appunto, non ancora contaminata e strumentalizzata dagli uomini che hanno sempre utilizzato la religione come forma di controllo. Significativo al riguardo questo particolare della storia: “Nonostante la sua immensa bontà, Hauser non aveva fede, è l’esempio del fatto che l’idea di Dio non è innata nell’uomo, ma gli viene dall’esterno, sia attraverso l’osservazione della natura, sia attraverso l’istruzione o l’esempio.” Un riferimento e un omaggio anche all’innocenza di Kaspar Hauser, essere libero dalla corruzione del sistema? Torna l’imposizione dei numeri, come dittatori che schiavizzano il nostro presente e diventano moneta per comprare opportunità. Numeri che possono essere identificati nei soldi ma anche nelle visualizzazioni per esempio, puntando tutto sulla quantità, sulla massa, quei numeri permettono di arrivare “in alto”.
Mezzo rifiuta di “stare sul pezzo” in questo senso perchè non è interessato a certe vette, artificiose e fittizie. Per questo esce con una delle sue perle, versi che contraddistinguono la sua sconfinata, semplice e disarmante genialità: “Mo che tutti parlano del rap è il rap a stare zitto” criticando la scena hip hop, ormai satura di pagliacci e finti gangsta che seguono solo la moda e hanno perso il vero significato che sta alle origini di questo genere. Continua criticando la società che ha messo radici profonde dentro la parte più oscura delle persone, si nutre di questi disvalori e allo stesso tempo li alimenta, in un circolo vizioso senza fine. Identifica negli USA le origini di questa società, che marchia gli uomini, li “porta al pascolo” come un gregge e mira ad averli tutti buoni ed obbedienti, tutti a seguire il pastore. A questo punto elenca i numeri della successione di Fibonacci (o successione aurea) e si diramano vie d’infinite interpretazioni. Può voler paragonare chi si sottomette a tutto ciò, ai conigli nell’esperimento di Leonardo Fibonacci quando afferma: “A te interessano i tuoi simili, non superi gli zero”. Non sei disposto nemmeno ad ascoltare chi la pensa diversamente da te e quindi diverso dai tuoi simili, non superi gli zero può riferirsi ad una concetto strettamente valutativo dell’essere umano visto come specie. Potrebbe essere visto come una sorta di chiusura mentale perchè non superi lo zero, non scopri cosa c’è oltre. Gli zero potrebbero essere quelli dei conti in banca, quindi sei talmente materialista che non vai oltre, non superi quel tipo di attaccamento venale.
L’utopia di Mezzo? “Spezzerei le gambe ad ogni vossignoria di ogni gerarchia” Non credo che questa rima abbia bisogno di spiegazioni, la trascrivo e sottolineo perchè riassume in una riga parte del suo pensiero e credo possa essere condiviso da molti. Non è anche la nostra utopia in fin dei conti?
Chiude il cerchio tornando sulla spiritualità, fornendoci la sua visione: “Sto nell’uno con coscienza”. In sostanza: “quale messa?”. Possiamo starcene benissimo a casa se vogliamo guardarci dentro, parlare con la parte più profonda di noi stessi, non c’è alcun bisogno delle celebrazioni per sentirsi parte di qualcosa, per essere collegati all’universo intero, al tutto, che in definitiva siamo noi, ognuno di noi.
Alla fine del viaggio all’interno di queste menti che si sono elevate oltre ogni confine, lascio libera interpretazione, scevra da condizionamenti, all’ultima rima. Ricordando sempre che “malgrado le terribili prove cui fu sottoposto, Kaspar Hauser conservò la fiducia negli uomini; colmo di bontà, egli accettò il suo destino, perdonando chi gli aveva fatto tanto male. Egli ha così trasformato in una vittoria dello spirito la sconfitta sul piano esteriore, ha trasformato il male in bene.”
Buonanotte dai discendenti di Kaspar Hauser. Al prossimo tuffo nell’inestimabile e poetica emozione che le rima ci dona. Alla prossima analisi su CGS
Mentre parecchie famiglie si interrogano sul futuro cercando di capire come arrivare a fine mese e le aziende cadono. Mentre le persone si chiedono come ammortizzare il colpo della prossima bolletta dopo anni di speculazioni e insensatezze. Mentre sbiadiscono gli infiniti discorsi senza alcun costrutto, concedendo visibilità ad altri sproloqui dello stesso stampo che andranno a sovrapporsi ai vecchi in un continuum di…nulla assoluto. Con più di una guerra in corso e l’inesorabile deriva valoriale in atto…cosa ci riserva il teatrino mediatico?
Indignazione e preoccupazione, non saprei dire quale viene prima. Per cosa? Per le feste.
Dopo aver dimenticato lo Space Travel, meglio conosciuto come il famigerato “Rave di Valentano”, i media tornano a dar fiato alla bocca, polemizzando sul raduno di Halloween, Witchtek 2k22, Modena.
Rieccoci, illusionisti da palcoscenico in pieno assetto distrattivo. Dopo le strumentalizzazioni dell’estate, i “professionisti dell’informazione” tornano a parlare di rave e “la politica” interviene con un decreto legge, provvedimento tanto in voga ultimamente. Mah. Non credo di essere l’unica a trovare tutto ciò ridicolo.
Proprio per questo non perderò tempo elencando le loro trovate repressive, ormai ne saranno a conoscenza anche i muri con tutto quel cianciare, aspetteremo la fine del loro grottesco work in progress per ragionare sulla “serietà” delle eventuali modifiche, perchè al momento ritengo sia inutile, senza contare il rischio di farmi venire il vomito. Meglio affidarsi a chi ne sa di più per approfondire i tecnicismi giuridici, e in ogni caso immagino sarà tutto assurdo.
Eviterò di riportare i semplici fatti di cronaca, per questo ci sono tgcom24, ANSA&CO, tutte le linee editoriali che si attengono alla sintesi, alla superficialità dell’informazione obiettiva e all’assenza di sentimento.
Tornando al punto, cerco di farmi un’idea sull’evoluzione di questo circo leggendo velocemente alcuni articoli, che assolvono il nobile compito di aggiornarci e rassicurarci sul buon operato di istituzioni e forze dell’ordine. Si susseguono, tutti uguali, in coro. Continuo a cercare, ci sarà pur qualcuno che prova ad andare un poco più in profondità. Continuo a cercare perchè alle feste ho lasciato un pezzo di cuore, perchè le ho vissute e amate, perchè mi fa incazzare vedere l’immagine distorta che emerge, non è possibile comprendere il quadro generale di un fenomeno tanto controverso, scorgendone solo un angolo.
Mi fa male prendere atto della deviazione distruttiva che ha in parte causato lo smarrimento del potenziale filosofico insito nei free party, mi fa male rendermi conto di essere stata parte del processo, allontanandomi da quella dimensione, chiudendo quel canale di resistenza per concentrarmi su altro invece di lottare per la sua sopravvivenza, di continuo messa a rischio da atteggiamenti irrispettosi, dagli inevitabili errori e dalla lenta perdita di senso. Quel mondo, quello che stanno cercando di distruggere, con l’aiuto di tutti, è stato anche il mio mondo, per parecchio tempo, con le sue potenzialità, i suoi rischi, con le possibilità e le criticità. Per questo, sento il bisogno di condividere la mia visione.
Come spesso mi capita, percepisco le varie dichiarazioni pubbliche come spocchiose e paternalistiche, un inutile blaterare senza cognizione di causa, privo di ogni autentica spinta verso una vera comprensione.
“Basta rave party illegali, delinquenti che spadroneggiano, istituzioni umiliate: ora si cambia! Complimenti al ministro Piantedosi, avanti cosi'” Matteo Salvini, vicepremier tweet (or twit?).
Il ragazzo nel video che compare dopo la sovraccitata e sprezzante sentenza del leader leghista dice molto, pur non essendo consapevole delle implicazioni politiche e dei fattori di denuncia sociale essenziali per altri, con molta semplicità centra un punto fondamentale della questione, che evidenzia l’assurdità di un così cospicuo spiegamento di militari.
Il succo è questo: stiamo solo ballando…easy. Capisco ci sia un problema di legalità, questo è indubbio. Un reato è un reato, ok. Come la violazione della privacy.
E’ lecito citofonare alla gente accusandola di spaccio aizzati dalla folla o improvvisarsi paparazzi sui social per denunciare al popolo la problematica che ci tocca più da vicino? Gli esempi si riferiscono alle trovate da cowboy di Salvini. Una cosa sono i fatti, un’altra è pensare siano giustificabili o meno, che è invece riconducibile alla propria percezione della realtà, in definitiva un atto arbitrario.
In sintesi: hanno rotto con le finte paternali, gli abusi di autorità, l’ipocrisia e soprattutto con le sceneggiate. Hanno rotto.
E forse sì, possiamo anche essere definiti tutti delinquenti, va benissimo, il mio cartone animato preferito è Robin Hood. Preferisco stare nella “legalità della mia coscienza” che avvalorare delle leggi che remano contro tutto ciò in cui credo, partorite da un sistema malato, alienante, iperburocratico, altamente divisivo, gerarchico e privo di ogni senso che vada oltre la profondità di certi portafogli e certe posizioni di potere, di qualunque genere esso sia.
Se “delinquente spadroneggiante” è inteso in tal modo, mi dichiaro colpevole, se invece parliamo di atteggiamento arrogante e autoritario, credo si debba guardare altrove. Forse dovremmo riflettere sull’autoritarismo e sulla natura delle istituzioni. Da dove viene, dove affonda le sue radici l’ostracismo ai rave? Le droghe sono ovunque, legali e illegali, c’è abuso e uso, consapevolezza e attenzione come incoscienza e pericoli. Un sacco di variabili insomma, è un discorso complesso che merita di avere il suo spazio e necessita di riflessioni accurate, non certo di tifo da stadio, dogmi, nauseanti moralismi o di assunti generati da tabù.
Se davvero la preoccupazione principale fosse stata l’incolumità dei ragazzi per l’apparente e inevitabile crollo dell’edificio non avremmo visto più ambulanze che camionette, all’esterno?
E l’elicottero? Ma scherziamo? Soldi pubblici ben spesi direi. Sicuramente possono verificarsi errori di valutazione sulla scelta della location, ma proviamo a scrivere nel browser “crollo di un capannone” e vediamo se il primo link che esce parla di rave. Ah no. Si parla di operai, di maiali in un allevamento e persino di Amazon. Già, gli incidenti capitano di continuo, anche alle feste. Gli incidenti e gli errori di valutazione sono ovunque, come la droga. Crollano i ponti e la sicurezza sul lavoro in certi casi è un miraggio, serve la montatura di un processo mediatico?
Nella morsa sempre più stretta del controllo, si cerca di mantenere quell’autonomia e quell’autodeterminazione di cui necessita l’espressione dell’arte fuori da certe logiche, anche quelle che la nostra mente a volte ci impone. Non è facile da spiegare, è un percorso.
Capita che il fiume straripi dal letto che qualcun’altro ha scavato per lui, l’acqua è incontenibile, a volte fa danni, ma da lei dipende la vita. Quindi, come si dovrebbe fare? Non piacciono a nessuno le alluvioni. Il livello di degrado che a volte si sfiora o si supera, non solo alle feste, è un punto sul quale si dovrebbe riflettere per migliorare.
Il traffico stradale del weekend verso i centri commerciali, al contrario, piace ed è socialmente accettato, la bulimia di materialismo che va a riempire quell’inspiegabile vuoto allo stomaco non è un problema, in fin dei conti conviene sempre…a qualcuno. E’ di certo un toccasana per quelle dinamiche economiche che sembrano animare le lamentele sui party illegali, simili a quelle dell’Associazione Italiana Imprese di intrattenimento da ballo e di spettacolo SILB o di Confcommercio.
“Onestamente, direi che prima di applicare misure restrittive di carattere anche penale, il fenomeno dei rave deve essere innanzitutto compreso nelle sue radici. Dividersi tra “indulgenti” e “proibizionisti” può rassicurare forse gli elettorati di riferimento e creare nuovi consensi, ma non aiuta a capire i bisogni e i desideri profondi che animano questi raduni […] Mi sembra così evidente che – come i giovani degli anni ’80 e ’90 cercavano nelle droghe pesanti una via di fuga da un modello di vita borghese percepito come “alienante” – così i giovani di oggi cercano in questi raduni estemporanei, organizzati per vie informali, la Comunità Perduta: un sentimento del convivere e del condividere di cui nella società del profitto, del consumo e delle guerre non è rimasta traccia”.
In poche righe sintetizza il messaggio che vorrei riuscisse a passare.
Per non andare avanti all’infinito e concludere, lo spirito di quel mondo non è morto. Finalmente ho trovato un video dove vengono coperti i volti, vedo unicità. Ho visto anche autentico disagio a volte, fragilità e insicurezze ma…di nuovo, vedo identità.
Viviamo e siamo, anche se ciondolanti, impolverati e stanchi. Emozionati, nel delirio e in connessione con la terra e l’aria.
Il suono che vibra tra i sorrisi e gli sguardi. Il buio che piano piano lascia spazio alla luce. L’immensità del cielo che si tinge di quel meraviglioso carta da zucchero in cui ombre e profili si iniziano a delineare, la sensazione tipica della mancanza di sonno che si fa sentire, la stanchezza e la voglia di non staccarsi mai da quelle casse si fondono in uno stato di bellezza che ti riempie corpo e anima. Momenti introspettivi sola con te stessa, tu e la musica soltanto, si alternano a scambi di visioni, seduti ai margini, in una fusione di attimi significanti che non finiscono semplicemente, si dissolvono con il ritorno forse, ma lasciano un segno indelebile.
Il tuo vissuto in condivisione.
Per la gif lancio di questo articolo (su telegram) ho scelto il flyer del lontano Witchtek III. Correva l’anno 2008.
Ho riesumato il vecchio hard-disk e per un po’ mi sono persa nei ricordi. Nel 2021 ad Halloween c’è stato il quindicesimo dei Revolt, questi pochi secondi bastano per intuirne lo spirito. Sempre festeggiato, lontano dalle telecamere e dalle chiacchiere. Mi chiedo quale sia, ora, la vera funzione di questi riflettori.
L’hip hop non è un fenomeno d’immediata comprensione e il rap è un genere musicale che necessita di attenzione nell’ascolto, di un’immersione totale.
Lo stesso brano offre una miriade di risignificazioni, che si svelano lentamente, ogni volta che lo si riascolta. Conosci davvero una canzone quando la senti in tutte le sfumature dei tuoi stati d’animo, quando la rivedi attraverso la lente delle tue ultime consapevolezze, quando fa definitivamente parte di te e il processo è reciproco, perchè è come se scoprendo un’altra inesplorata zona dell’universo interiore espresso in quelle liriche, facessi luce anche su alcune parti di te rimaste in ombra fino ad allora.
E’ magico e travolgente, simbiotico se parliamo dell’alchimia percepita durante i live. Attendiamo quindi, con estremo entusiasmo, il momento in cui potremo inabissarci con piena coscienza nell’album di Kaos One e DJ Craim uscito il 14 giugno.
E’ curioso notare che il tempo necessario ad assaporare un disco facendolo proprio è direttamente proporzionale al tempo che serve a farne nascere uno nuovo, intercorrono sempre parecchi anni infatti tra un lavoro e l’altro, le “lunghe” tempistiche hanno sempre contraddistinto Kaos.
E’ una peculiarità del Maestro, questo il titolo che gli è stato attribuito, per molti probabilmente è solo un modo di esprimere l’immensa gratitudine verso i suoi testi, verso le emozioni che incanalano e suscitano, con infinita umiltà ci ha ironizzato su: “…scrivo minchiate e mi chiamate Maestro”.
Il suo valore verte sulla qualità, non risiede certo nella quantità, un dettaglio in via d’estinzione causa la nostra era fondata sulla produttività.
Il singolo “Titanic” riconferma lo stile unico di un outsider, è l’underground in persona che non si smentisce mai e conserva il suo tocco. Per comprendere meglio, eccone un assaggio.
“Ed è sempre speciale Sempre più demenziale La sagra del ridicolo Qua è sempre carnevale Sarà La percentuale di realtà mascherate La festa nazionale delle verità scontate”
Un’istantanea della nostra “civiltà”, la distorsione del mondo condensata in qualche schizzo d’inchiostro e trasmessa attraverso la sua inconfondibile voce: vera e intensa, tanto autentica da risultare incredibilmente limpida, trasparente e cristallina nei contenuti, pur mantenendo il caratteristico graffio roco.
Entra dirompente nel tuo essere e si fa spazio nel costato per poi insinuarsi, riparatrice, in ogni crepa di incoerenza. Vibra verità, sorretta dalla forza di un beat e dal perfetto connubio che ne deriva, grazie alla garanzia costante che troviamo in Dj Craim. Spingendosi sempre più giù, conclude il suo viaggio direttamente nel profondo dell’anima, e lì resta. Incisa e indelebile.💜 Che dire!
Nonostante l’apertura e la curiosità verso le sperimentazioni, nonostante il valore che si può attribuire al radicale cambiamento di un artista, se genuino, sarebbe impensabile non spendere due parole per elogiare questa rinnovata coerenza. Forse uno dei motivi per cui credo fermamente che l’ integrità di Kaos sia così importante, trattandosi di merce rara, è riconducibile all’assurdità di questo tempo, sembra esserci un estremo bisogno di onestà e dignità in questo particolare periodo storico, affollato di insensatezze.
Perciò concludiamo, ripartendo saldamente da un nuovo inizio. “Perchè il rispetto ti ossessiona e la morale non perdona” nel caotico e fluido presente, ed è rincuorante trovare in lui un pilastro irremovibile, qualunque sia la realtà vissuta e qualunque sia la verità alla quale crediamo. Dal principio di non contraddizione all’infinito, nella ricerca introspettiva che tenta di dare un senso alla vita, celebriamo le piccole cose, quelle che contano, partendo dalla nostra umanità.
Ce lo rammenta dal palco: “Siete voi…Cose preziose“. Aspettando settembre per sentirselo dire di nuovo, cercando ancora quell’incredibile sinergia, cantando sottopalco al Magnolia!
Kaos, sempre fedele a se stesso. L’intramontabile bagliore di una leggenda.
Il breve articolo uscito su DolceVita, per farsi un’idea della situazione, legiferare sulla libertà sta davvero diventando una pessima abitudine.
Non ci hanno fatto attendere molto. Presentato dalla Lega un Disegno Di Legge che punta alla repressione dei free party, Matteo Salvini primo firmatario. Andando oltre i fatti di cronaca e aggiungendo qualche considerazione personale a quanto scritto, mi chiedo se ci saranno delle ripercussioni o se questa insania alla fine non avrà alcun seguito, svanendo nel nulla come il blaterare di certi elementi. Scusate la franchezza, ma non è stato facile scrivere di una cosa che mi sta tanto a cuore in maniera obiettiva e imparziale. Ora mi posso finalmente sfogare! =)
Spero che questo mare implacabile, nel tentativo di annegare ogni forma di dissenso, non travolga e distrugga tutto per sempre, riportando a riva solo i rottami di quella caotica ma meravigliosa controcultura rappresentata dalla free-tekno in continua insurrezione. La mia ancora per tanti anni, un porto sicuro. L’opinione pubblica si è scaldata, il teatrino politico è stato alimentato e com’era prevedibile viene battuta la strada dei “provvedimenti necessari”.
Non è il caso di perdere tempo sulla palese inadeguatezza del classico approccio proibizionista, insensato come il voler impedire al sole di sorgere o all’acqua di scorrere. Dicevo, i giornali stanno già vociferando dopo le dichiarazioni sui social e tra le disposizioni a gran voce invocate riportano anche il possibile “utilizzo di agenti sotto copertura”. Sul serio? Una barzelletta. “Ci sono un raver, un cane e un carabiniere…”.
Mi ha relativamente colpita “quest’ultima trovata”, come se alle feste non si fossero mai fatti vedere, con il borsello di pelle e il loro caratteristico portamento che riconoscevi da un kilometro di distanza in linea d’aria. Ma ora è diverso, ora sono impiegati “in ottica di prevenzione”. Ovviamente la butto sul ridere per sdrammatizzare, in realtà li ho sempre trovati abbastanza tranquilli e qualcuno di loro era pure simpatico, ciò che mi urta in questo caso è la volontà di nascondersi dietro al filo d’erba della sicurezza e alla ormai esacerbata salvaguardia della salute. Più che prevenzione a me sembra controllo, controllo e ancora controllo.
Appresa la notizia ho iniziato a scrivere di getto e mi rendo conto che a far capolino nella mia testa è stata la vocina della paura. Disperatamente vorrei scorgere un barlume di resistenza a questo mondo sempre più omologato e sterile, perchè so di non poterci vivere. Lascio andare quella sensazione di impotenza perchè le mie convinzioni sono poche, lo ammetto, variabili forse, ma di una cosa in particolare sono certa da sempre, e sempre lo sarò.
I cuori liberi non si fanno rinchiudere, non è possibile costringerli dentro un perimetro, non li tieni lontani da ciò che amano e dalle vibrazioni che li fanno battere all’unisono.
Tutto questo parlare di rave mi trascina indietro nel tempo, a quel clima fervido e vivido che adoro. Crediamo ancora in un mondo diverso, dove condivisione, vicinanza e umanità sostituiscono brama, arrivismo e diffidenza. Sta proprio qui il nocciolo della questione, la realtà che desideriamo non conviene a chi fonda tutto su profitto e speculazione. Ci interessa? No.
Continueremo a sincronizzare i battiti ballando. Ben radicati a terra, con le mani alzate verso quel cielo immenso che non potranno mai veramente controllare.
“L’esperienza di queste manifestazioni risponde all’esigenza di affermare una zona diversa dalle dinamiche imposte dalle istanze economiche, amministrative e istituzionali che regolano la quotidianità dello spazio “pubblico” e di chi lo attraversa.”
Introduciamo con questo virgolettato tratto dalla definizione di free party, un concetto estremamente importante per arrivare a comprendere l’originario potenziale, concreto e non solo strettamente simbolico di questa subcultura, che è delimitato dai confini delle Zone Temporaneamente Autonome.
“Non c’è processo rivoluzionario senza al contempo un percorso di crescita interiore rivolto alla totalità dell’esperienza e alla comprensione dei mille fili che tengono insieme la realtà.”
Una vera e propria protesta contro il controllo sociale in generale e in particolare un attacco alle sue strutture. La creazione di queste aree durante i rave è vista come una tattica sociopolitica in grado di mettere “in piedi” un tipo di “orizzontalità” unico nel suo genere, eliminando di fatto ogni gerarchia, ma soprattutto stabilendo temporaneamente e in autonomia una visione alternativa che può essere individuale o collettiva, parziale o totalmente unificata. Diversa da quella instauratasi durante l’ultima festa vissuta perchè in continua evoluzione, in mutamento grazie al cambio di luogo, di ambiente, di gestione, di persone e di altre infinite variabili che si susseguono sovvertendo sempre gli schemi imposti dalla società, ma rovesciando di volta in volta anche “l’ordine” precedentemente stabilito dalla TAZ creatasi durante l’utimo evento, senza concedergli il tempo necessario a radicarsi e a ripetersi, senza lasciargli spazio per sedimentarsi, per inquadrarsi rigidamente come succede, per definizione, ad ogni sistema.
Per questo è impossibile che la struttura della TAZ precedente si riproponga in quella successiva, nascendo appositamente per rompere gli schemi, perderebbero il loro senso, fondato sullo sforzo di creatività necessario a trovare l’equilibrio perfetto che si adatta a quel particolare allineamento. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che nonostante i rave abbiano una natura fortemente sovversiva, possano comunque facilmente ricadere nei propri schemi costituendo in definitiva una sorta di sistema, per quanto di nicchia e seppur circoscritto.
Non esiste una festa uguale all’altra. Non mi riferisco esclusivamente agli aspetti tangibili della questione, che sono in ogni caso molto diversi, partendo dal luogo, passando al tempo, arrivando alle persone. Mi riferisco in particolar modo a quella travolgente energia che si vive a livello percettivo, parlo sempre in base alle mie esperienze ma sono piuttosto certa che chiunque si sia avvicinato a quel mondo converrà con me, ogni esperienza è speciale nella sua unicità, ineguagliabile.
Cerco di spiegarmi meglio facendomi aiutare da questo video, c’è un esempio lampante di ciò che intendo. Parte già con un gran bel basso, a 30 secondi dall’inizio viene inserita una citazione tratta da “Frankenstein Junior”. Gli attacchi al minuto 1.00 e al minuto 8.00 valgono davvero tutto il caldo sopportato e tutta la polvere respirata, niente potrà mai rubarmi dal cuore l’intensità di quei giorni. La traccia non si trova così com’è stata suonata in quel momento, è stata improvvisata live e in quel preciso modo è esistita in quel particolare istante soltanto, unica come l’energia trasmessa attraverso le vibrazioni che ti avvolgevano sottocassa e le sensazioni non saranno mai uguali a quelle che si proveranno davanti a un altro muro di casse, circondati da persone diverse, respirando un’aria nuova, immersi nell’ennesima TAZ in evoluzione.
Il tentativo è quello di liberare la mente dagli automatismi nei quali rimane imbrigliata, è un ottimo esercizio di elasticità e assestamento, aiuta a costruire una realtà in fuga dalla piatta quotidianità che ci è imposta, per ricondurci verso un modo di vivere diverso, generato dalle relazioni e basato esclusivamente sul presente, nel qui ed ora.
“Nel mondo era in atto un rapido cambiamento – la cosiddetta Fine della Storia – anche quando apparve il libro; ma T.A.Z. vedeva ancora il mondo sotto il segno di una dialettica che lo aveva governato fin dalla mia nascita: la Guerra Fredda e la menata capitalismo vs. stalinismo. La nozione di base della Zona Autonoma Temporanea era intesa come un contributo ad un’agognata Terza via, una sorta di evasione dalla dialettica, un’alternativa sia al Capitale che all’Ideologia.”
Hakim Bey attribuisce all’informazione un ruolo fondamentale nello sviluppo delle TAZ, riconoscendone la centralità per quanto riguarda la messa in discussione del sistema e per l’evidente tentativo di manipolazione e censura. Proprio lo scardinamento degli schemi di pensiero che questa zona rappresenta sta alla base del dubbio, con l’autenticità e la libertà dell’informazione, partendo da quest’area fisica alternativa, si genera un innovativo spazio mentale, decisamente personale. Terreno fertile per il cambiamento. Lo scrittore, nell’introduzione alla nuova edizione del libro riconosce il fallimento nella ricerca dell’alternativa desiderata, “l’agognata Terza via”, la mancata rivoluzione che poteva nascere dalla realtà mossa dai suoi ideali.
“…ora siamo in presenza di una nuova fase del neoliberismo: la globalizzazione egemonica, “l’Impero”…Quello che abbiamo è un unico mondo, una triste parodia del vecchio sogno liberale e internazionalista; un unico mondo, ma con alcune zone escluse, e un’unica superpotenza che non deve sottostare ad alcuna regola.”
Una triste e troppo veritiera descrizione del nostro presente. Un mondo unificato a forza, che necessita di un pensiero unico, di un modo di vivere unico. Le esperienze personali formano, plasmano e modellano la percezione, per questo a qualcuno potrebbe sembrare un’assurdità il fatto che nel 2021, in un paese democratico, non sia concesso ad ognuno di vivere nel modo che ritiene più opportuno, ma succede.
Immagine piuttosto rappresentativa, anche se le indicazioni sullo schermo potrebbero variare in base alla direzione voluta in quel preciso momento, ovviamente il succo non cambia.
Viviamo quindi un’epoca in cui la velocità e il “feticismo della merce” hanno creato una tirannica falsa unità che tende a confondere tutte le diversità e individualità culturali, di modo che “un posto vale l’altro.
Si potrebbe aprire qui una lunga analisi su un altro cardine fondamentale del pensiero di Bey, il concetto di nomadismo psichico, ma stiamo parlando di TAZ, quindi semplicemente mi limiterò a sottolineare che esso non coincide con il presunto ma fortemente plausibile tentativo di sradicamento e conseguente perdita d’identità in atto, questo “traguardo” verrebbe raggiunto solo attraverso una non-risposta nata da un tipo di atteggiamento passivo e indifferente, niente a che vedere con quanto sostenuto dal saggista anarchico, credo lo si evinca facilmente dal tono critico del virgolettato.
E’ di particolare rilevanza a mio avviso la farsa orchestrata da qualcuno che ha utilizzato lo pseudonimo collettivo Luther Blissett e spacciandosi per un fantomatico Fabrizio P. Belletati, è riuscito a far stampare e distribuire dalla casa editrice Castelvecchi la traduzione di un libro “scritto da Hakim Bey” e intitolato: “A ruota libera”, rivelatosi un clamoroso falso.
“Proprio perché il Luther Blissett Project è un contesto aperto è assurdo pretendere che i tentativi di definirlo o trovargli per forza un’ascendenza non incontrino resistenze da parte di chi utilizza il nome…Personalmente, credo che la teoria a cui la prassi di Blissett somiglia di più sia quella che si dipana dai *Grundrisse* di Marx, opera su cui i situazionisti non sono mai stati in grado di articolare alcun discorso sensato. Mi riferisco al dibattito sul “General Intellect”, del quale LB può essere visto come una paradossale antropomorfizzazione; dopodiché, questo “flusso di coscienza” potrebbe essere fatto passare attraverso i commenti ai Grundrisse fatti da Amadeo Bordiga (e la pratica bordighiana dell'”anonimato rivoluzionario”) e alla definizione camattiana di “Homo Gemeinwesen”, l’uomo-comunanza, e oltre. Non è certo necessario conoscere queste cose per usare il nome, ma chiunque si prenda il mal di pancia di spulciarle capirà istantaneamente cosa intendo dire. D’altra parte, sfido chiunque a trovare una qualche similarità tra LB e la non-descrizione dello spettacolo data da Guy Debord.”
E continuando su questa linea: “Sostenere che quello di Luther Blissett è un progetto di scontro frontale con l'”industria culturale” (o, ancora più stupidamente, di “assalto ai mass-media”) equivale a non aver capito un cazzo di niente. Blissett è un esperimento pratico (e gioioso) sul mito e sull’infiltrazione della cultura pop. Le “beffe mediatiche” non sono nemmeno la punta della punta dell’iceberg…”
Quest’ultima affermazione è indirizzata alle parole di Benedetto Vecchi, che riferendosi a LB avrebbe affermato:
“Nel suo obiettivo, però, c’è anche l’underground, spesso preso di mira perché considerato, a torto, come un “manipolatore delle coscienze” al pari dell’industria culturale.”
Anche se sono affascinata da tutto quello che ruota intorno a Luther Blissett e mi piacerebbe scoprire su cosa si reggono davvero le fondamenta dalle quali tutto si è edificato, non intendo speculare qui sulle sue reali intenzioni, non ora almeno. Inoltre, sono convinta che l’underground potrebbe di certo essere in grado di manipolare le coscienze esattamente come qualsiasi altro genere di condizionamento, anche se ciò non toglie validità al potenziale rivoluzionario delle TAZ.
Con questo voglio dire che ormai non credo più nella buona fede di nessuno, non intendo osannare il Sig. Peter Lamborn Wilson, in arte Hakim Bey, semplicemente perchè è lui. Trovo in realtà alquanto discutibili certe sue affermazioni ma non è necessario essere d’accordo con l’intero pensiero di un autore per riconoscere la fondatezza di una parte delle sue convinzioni. Non mi interessa analizzare la sua intera produzione letteraria, nè discutere riguardo la sua figura, chissene frega.
Sto scrivendo sulla teoria della TAZ perchè l’ho vissuta senza rendermene nemmeno conto per parecchio tempo, in seguito l’ho percepita e intravista, l’ho inseguita fino a prenderne definitivamente coscienza e sono rimasta colpita dalla sua vitalità. Ho riconosciuto la sua esistenza sperimentandola e l’ho abbracciata nel profondo perchè mi ha rapito, mi ha sempre scosso e aiutato molto.
Considerata questa premessa, il fatto che Vecchi venga in gran parte smentito da LB non incide sui pensieri che si sono concatenati in seguito alle sue parole, è stato per me un significativo spunto di riflessione sul ruolo dell’identificazione massiva e a volte rigida, che coinvolge le controculture, i movimenti, le idee. Cosa intendo dire con questo? Per cercare di spiegarmi meglio e far passare il concetto mi è utile questo articolo: Hakim Bey e la non-ideologia delle TAZ di G. Silvestri, della rivista “Indipendenza”, che riporta la seguente affermazione: “Hakim Bey è divenuto perciò citatissimo, trasformato in una vera e propria icona della controcultura.”
Questa frase è particolarmente riassuntiva e contiene il nocciolo del discorso, non dovrebbe proprio esistere un’icona della controcultura, dalle quali labbra si pende rischiando di credere ciecamente a tutto ciò che dice esattamente come se incarnasse un’ideologia, adagiandosi comodamente nella propria zona di comfort, smettendo di porsi delle domande, idolatrando senza il minimo pensiero critico, così facendo non saremmo tanto lontani dal modo di vivere che intendiamo ripudiare.
In particolar modo se ci riferiamo alla cultura underground, un rapporto iconico con una singola personalità non ha senso di esistere, o meglio, per non generalizzare e senza voler in alcun modo imporre la mia visione, preferisco esprimermi così: tutto questo va contro la mia “definizione” di underground, contro la mia personale concezione, contro la mia individuale esperienza. Siamo noi stessi emblema della nostra determinata modalità di pensiero e della conseguente volontà di vivere in quel preciso modo, proprio perchè unici e irripetibili. E’ inevitabile trovare punti in comune con una specifica “categoria”, alla quale magari ci sentiamo più affini, nonostante ciò sarebbe bello mantenere intatta la nostra unicità e la vera rivoluzione secondo me starebbe proprio nel concretizzare questo pensiero, nella “realizzazione di tale utopia”.
Sempre nell’articolo di “Indipendenza” troviamo: “Come sostiene lo stesso Bey: “La TAZ, da semplice comodo provvisorio acronimo, è diventata un alibi per l’assenza di strategia e abbonda oggi sulla bocca dei trendies e dei mediatisti”.
Non è in realtà Hakim Bay che lo sostiene visto che il libro è una presa in giro rivendicata dal Luther Blissett Project ma trovo il ragionamento più che sensato considerando la piega assunta dalla società odierna. Nonostante l’autore abbia strutturato l’articolo basandosi su “A ruota libera”, cascando nel tranello di LB, l’idea riportata nel seguente virgolettato è in linea col mio sentire: “ricostruire proprio intorno al cyberpunk una nuova identità antagonista capace di indicare, attraverso l’attenzione verso le nuove tecnologie, segnatamente quelle informatiche e della comunicazione, una possibile strada di ribellione e non acquiescenza rispetto allo spesso spietato ridisegnarsi dei bisogni sociali indotti dalla loro adozione su vasta scala nella società-mondo.”
Anticipiamo così un altro concetto chiave, che verrà approfondito in seguito, strettamente legato a questa controcultura e al rapporto tra rave e tecnologia.
Cercando invece di non perdere il filo conduttore, in riferimento ai messaggi che intendo far passare attraverso queste righe, tirando le somme direi che qualsiasi spinta potenzialmente rivoluzionaria, partendo con tutte le buone intenzioni di questo mondo finisce per essere strumentalizzata, funzionalizzata e indirizzata verso il nuovo tipo di normalità voluto. Considerato questo, a mio avviso non è la teoria delle TAZ il problema, ma la sua alterazione, la manomissione attraverso la spettacolarizzazione, tanto per fare un dispetto ai Blissett citando Debord. =)
Continuando invece a citare Bey: “La Storia sostiene che la Rivoluzione arriva alla “permanenza”, o per lo meno alla durata, mentre l’insurrezione è “temporanea”. In questo senso la seconda è come un’esperienza estrema, tutto l’opposto rispetto allo standard della coscienza e dell’esperienza “normali”. Come le feste, le insurrezioni non possono essere quotidiane, altrimenti non sarebbero più “a-normali”. Tuttavia, questi momenti intensi danno forma e significato alla totalità della vita… Che ne è del sogno anarchico dello stato senza Stato, della Comune, della zona autonoma con una durata, della società libera, della cultura libera? Lo scopo è cambiare il mondo, non cambiare la coscienza. E’ una critica giusta. Però vorrei fare due precisazioni: primo, finora la rivoluzione non è riuscita a realizzare questo sogno. La visione prende vita nel momento della rivolta, ma appena la “Rivoluzione” trionfa e torna lo Stato il sogno e l’ideale sono già traditi. Non rinuncio alla speranza o anche all’attesa di un cambiamento, però diffido della parola Rivoluzione.”
Com’è possibile evitare il continuo ripetersi di questa dinamica? Come spezzare il circolo vizioso della storia?
“Insurrezione, dal latino insurrectio, è il termine utilizzato dagli storici per etichettare le rivoluzioni fallite, i movimenti che non seguono la parabola prevista, la traiettoria approvata consensualmente: rivoluzione, reazione, tradimento, fondazione di uno Stato più forte e ancor più repressivo. La ruota gira, la storia torna sempre e sempre alla sua forma più elevata: schiacciare con pesanti stivali da SS la faccia dell’umanità…
La TAZ è come un’insurrezione che non si scontra direttamente con lo Stato, un’operazione guerrigliera che libera un’area (di terra, di tempo, di immaginario), poi svanisce per riformarsi altrove, in un altro tempo, prima che lo Stato possa schiacciarla… La TAZ comincia con una semplice presa di coscienza…Abbiamo già citato l’aspetto festivo del momento non controllato che aderisce a un’auto-organizzazione spontanea, per quanto breve. E’ “epifanico”, è un’esperienza forte a livello sociale quanto individuale.”
Quando parlo del grande potenziale dei rave mi riferisco essenzialmente a questo aspetto, alla forza di tali esperienze che possono essere viste come delle corte micce, il breve frangente nel quale bruciano fa esplodere la bomba in seguito. Spesso non è necessario essere totalmente consapevoli di questa combustione, non ci è dato sapere il luogo dell’esplosione, nè il suo orario esatto, ma il momento dell’innesco viene vissuto ugualmente e la detonazione avverrà comunque, a tempo debito. Potrebbe risultare difficile, se non impossibile, risalire al preciso istante che ha dato il via a tutto, ma è rilevante?
Il processo è in atto, questo è quello che conta.
Alla luce di quanto sopra descritto e valutando realisticamente la portata e la solidità del sistema vigente, che sembra troppo grande, complesso e radicato per essere anche solo scalfito con una semplice rivolta popolare, figuriamoci distrutto visto e considerato il perenne fallimento delle manifestazioni, in riferimento alla ricerca di una soluzione concreta che possa interrompere il subdolo meccanismo di ritorno che ci riconduce sempre e inesorabilmente in catene, trovo interessante il seguente spunto:
“Da come la vedo io, la sparizione sembra un’opzione radicale molto logica nella nostra epoca, niente affatto un disastro o la morte del progetto radicale…scavare alla ricerca di utili strategie nell’incessante “rivoluzione della vita quotidiana”: la lotta che non può cessare nemmeno con lo scacco definitivo della rivoluzione politica o sociale perchè soltanto la fine del mondo può far cessare la vita quotidiana e le nostre aspirazioni alle cose buone, al Meraviglioso… Studiamo l’invisibilità, il fare rete, il nomadismo psichico. E chi lo sa che cosa otterremo?”
“Ho immaginato la Rete come un’appendice alla TAZ, una tecnologia al servizio della TAZ, un mezzo per potenziarne l’emergere. Ho proposto il termine “Web” per questa funzione della Rete.
Che beffa. La rivista “Time” mi ha identificato come un cyber-guru, “spiegandomi” che la TAZ esiste nel cyberspazio. Il termine “Web” è diventato il termine ufficiale per la funzione commerciale/di sorveglianza della Rete, e nel 1995 è riuscito a seppellire il potenziale anarchico della Rete (se esisteva davvero) sotto una massa di pubblicità e di truffe dot-com.
Ciò che resta della sinistra sembra ora abitare un mondo fantasma dove qualche migliaio di “hits” passano per azione politica e la “comunità virtuale” prende il posto della presenza umana. Il Web è diventato lo specchio perfetto del Capitale globale: senza confini, trionfalista, evanescente, esteticamente fallimentare, monoculturale, violento – una forza finalizzata all’atomizzazione e all’isolamento, per la scomparsa della conoscenza, della sessualità, e di ogni sensibilità sottile. La TAZ deve esistere in uno spazio fisico tattile geografico pieno di odori e sapori altrimenti non è altro che un progetto sulla carta o un sogno. I sogni utopici hanno valore come strumenti critici e dispositivi euristici, ma non c’è sostituto per la vita vissuta, la presenza reale, l’avventura, il rischio, l’amore. Se si fa dei media il centro della vita, allora si condurrà una vita mediata – mentre la TAZ vuole essere immediata o altrimenti niente…deve esistere all’interno di un mondo di puro spazio, il mondo dei sensi. Liminale, addirittura evanescente, deve combinare informazione e desiderio per portare a buon fine la sua avventura (il suo “av-venire”), per espandersi fino alle frontiere del destino, per saturarsi con il proprio divenire.”
Eccola, è esattamente la filosofia che accompagna quella che dovrebbe essere la vera essenza delle feste, dalla loro nascita negli anni settanta in opposizione alle politiche repressive dell’epoca, per passare poi al movimento “Reclaim the street” degli anni ‘90 che protestava contro il capitalismo e la globalizzazione (dal quale si svilupperanno le street parade), arrivando poi ad influenzare la realtà italiana delle origini fino alla perdita di significato che sempre più sembra aver incrinato, se non cancellato totalmente quella sostanza, servendosi proprio dell’abuso di altre sostanze, quelle che hanno iniziato a dilagare tra i giovani. Senza in alcun modo negare la gravità del problema evitiamo di soffermarci inutilmente ora sulla differenza tra uso, abuso e dipendenza perchè approfondiremo meglio questo aspetto nelle prossime uscite, semplicemente perchè questa sezione è dedicata alla parte ideologica del rave e al suo potenziale, non alle sue dolorose derive.
Ripartendo quindi dalle idee, scongiurando altre possibili aberrazioni e considerando la cattiva fama del cyberpunk, che potrebbe essere visto solo ed esclusivamente come tentativo disumanizzante, vorrei sottolineare un particolare importante che non merita di essere trascurato:
“La taz va d’accordo con gli hacker perchè vuole nascere, in parte, tramite la Rete, anche grazie alla mediazione della Rete. Ma va d’accordo anche con i verdi perchè mantiene una forte coscienza di sè in quanto corpo e prova solo schifo per la Cibergnosi, per il tentativo di trascendere il corpo tramite l’istantaneità e la simulazione. La taz tende a ritenere fuorviante la dicotomia tech/anti-tech, come quasi tutte le dicotomie in cui gli apparenti contrari si rivelano falsificazioni o addirittura allucinazioni causate dalla semantica.
E’ un modo per dire che la taz vuole vivere in questo mondo , non nell’idea di un altro mondo, di un mondo visionario nato da una falsa unificazione (tutto verde OPPURE tutto metallo) che può esssere l’ennesimo miraggio… La taz è utopica nel senso che punta a un’intensificazione della vita quotidiana o, come avrebbero detto i surrealisti, all’inserimento del Meraviglioso nella vita. Però non può essere utopistica nel vero senso della parola, cioè un nessun dove. La taz è in un dove.”
Dopo il grande successo riscosso da TAZ la critica si è lanciata in profondi elogi e articolate recensioni sul famigerato, finto libro di Hakim Bey. Parliamo soprattutto degli intellettuali di sinistra.
“Semplificando una TAZ può essere vista come un’isola, non necessariamente fisica, di territorio liberato dalle logiche di dominio economico e mentale capitalista.”
Sono d’accordo con questa chiarificazione ma credo che, anche se bacini di pensiero libero possano riempirsi nelle più vaste distese virtuali, la scintilla vitale che davvero è andata a perdersi scatti proprio nella fisicità di certi attimi. Stiamo perdendo quell’innesco con tutta la forza che ne deriva. Vivere nel mondo reale è doloroso, difficile, spesso complicato ma bellissimo e irreplicabile.
Posso scrivere con l’anima solo il mio vissuto e le mie esperienze dirette, su tutto il resto posso farmi un’opinione, posso rifletterci, ma restano in ogni caso astrazioni e credo che oggi sia indispensabile ricollegarsi a quel tipo di realtà, lo vedo come punto di partenza per un percorso di consapevolezza e sono convinta che sia importante, ora come non mai.
In un mondo di apparenza immerso in un oceano di snaturamenti e distorsioni, dove la realtà è filtrata e scenografica, dove niente di quello che vediamo attraverso uno schermo, nulla di ciò che ci viene raccontato appare reale, quello che ci manca per ritrovare l’equilibrio necessario che ci permetterebbe di fare davvero la differenza è, in definitiva, l’esperienza diretta, seguita da tutto ciò che ne deriva. Solo in questo modo si può ambire “alla comprensione dei mille fili che tengono insieme la realtà.”
Finiamo con questo concetto chiave per chiudere il cerchio, perchè proprio da lì siamo partiti citando una delle più grandi “intuizioni” di Bey.
Concludo definitivamente con un piccolo pezzetto di quella che è stata la mia realtà, un minuscolo frammento di una TAZ che mi si è incisa nell’anima.
Questo video dura pochissimo, semplicemente perchè non volevo si vedessero troppo i volti e sul finale, per motivi tecnici, sono stata costretta a tagliarlo esattamente al ventitreesimo secondo. E’ una bella coincidenza, per chi crede nel caso. Tralasciamo il mistero intorno al numero, i suoi molteplici significati e tutto quello che c’è dietro, perchè ci vorrebbe un approfondimento a parte e non ne so abbastanza. In questo particolare momento lo vedo solo come un piccolo omaggio alle feste vista l’importanza che i ravers attribuiscono al 23, personalmente è un semplice ricordo di quello che i rave rappresentavano per me e di ciò che mi hanno lasciato dentro.
John Princekin, una mente infinita la sua, a tratti difficile da decifrare perchè immensa nella sua profondità. Visto che l’abbiamo incontrato per ben tre giorni, andiamo a chiudere la settimana tematica riportando qualche stralcio di una sua intervista, rilasciata in occasione dell’uscita di Pyramid. Chi meglio di lui puà farci comprendere gli intenti che spingono l’arte dei XVI Religion sempre avanti e sempre più su?
“A noi piace la fantascienza, ci mettiamo delle visioni un po’ nostre, un po’ di quello che vediamo in giro, un po’ di come ci immaginiamo l’incubo della vita che tentiamo di riprodurre tramite la nostra musica…tentiamo sempre di far pensare con noi il nostro ascoltatore, facciamo una riflessione insieme a loro. Abbiamo un riscontro di determinati tipi di persone che la pensano come noi su quello che può essere la società e il pensiero dell’uomo. Sono delle riflessioni su quello che è odierno tramite immagini di fantasia e mostri…Lo scopo è non sentirsi soli…Noi tentiamo con la nostra musica di far capire a tutte queste persone che si sono distaccate dalla società che non sono da sole, ci siamo anche noi che la pensiamo come loro e insieme a noi tantissima gente…”.
Jodorowsky diceva che bisognava pensare ad ogni nostra cellula come se fosse un universo infinito, concludiamo con una delle visioni più belle di Princekin in risposta a questo pensiero.
“…noi siamo tutti universi, differenti ed ingiudicabili perchè nessuno può giudicare il trascorso di un universo. Però allo stesso tempo tanti universi non si accorgono di essere infiniti e quando noi parliamo nei testi di questo non facciamo mai riferimenti odierni, ma aurei proprio per far capire che la coscienza di ogni individuo è infinita e ineguagliabile. Dobbiamo sentirci universi per essere davvero infiniti.”
Il pezzo si apre con una bellissima citazione tratta dal film “Stalker”. Può apparire paradossale una visione nella quale la musica è totalmente slegata dall’ideologia viste le analisi dei testi presi in considerazione finora, che rappresentano l’esatto opposto, l’attivismo che si manifesta proprio attraverso l’arte per arrivare dritto al cuore. La vera essenza della vecchia scuola e dell’underground è senza dubbio questa, è l’espressione di tale concetto. In particolare se parliamo di rap, è la rappresentazione e la condivisione dei propri ideali, le rime come strumento, come mezzo comunicativo per il raggiungimento di una consapevolezza maggiore anche a livello di crescita individuale, traguardi che diventano il fine ultimo in un continuo vorticare di pensieri e riflessioni, il piacere che deriva dai semplici incastri di parole, dai riferimenti fino alle analogie.
L’intro si riferisce quindi alla musica come suono universale, in questo caso può alludere alla base con tutte le sue sfaccettature, dalla più semplice alla più elaborata con loop e campionamenti vari. Credo che in gran parte sia una questione di gusti personali, anche se la complessità di un singolo beat può lasciare senza fiato, a volte il grezzo “bum cha” con la classica e “semplice” metrica o con gli stratagemmi del flow per stare sui 4/4 può essere altrettanto sconvolgente, questa è solo la mia opinione e non vorrei risultare troppo di parte perchè per certi versi adoro quello stile, così come nell’elettronica adoro la minimal, quindi forse non faccio testo.
Mi piace pensare che più nello specifico la citazione possa rappresentare un omaggio allo scratch, altra caratteristica distintiva della cultura hip hop che merita il suo spazio. Ho scelto “Religion” proprio per questo motivo, per gli scratch che contiene, per valorizzare questa tecnica che è in grado di regalare momenti di intensa emozione mentre ti ritrovi a scivolare anche tu avanti e indietro con la manipolazione del tempo perdendoti nella distorsione del suono sul vinile, mentre ti abbandoni facendoti cullare o trascinare, a seconda dei pezzi, dal cursore.
La musica può andare oltre le parole, forse può arrivare molto più in profondità, lo si capisce quando ci si ritrova accanto a persone che non parlano la stessa lingua, il banco di nebbia comunicativo si dissolve in un secondo, spazzato via dall’incalcolabile potere unificante del suono. Niente a che vedere con quello che siamo soliti chiamare linguaggio, ma ciò non è inteso come l’ allontanamento dal concetto di comunicazione, al contrario, è il soffermarsi a riflettere sulle sue più svariate molteplicità, quelle ritenute possibili e perchè no, anche quelle che vengono confinate nell’ambito della suggestione.
Per intenderci, la sinergia che provano le persone accalcate sottopalco, mentre il battito dei loro cuori si sincronizza, non si può considerare vera comunicazione? Le esperienze telepatiche sono tutte sapientemente spiegate dalla scienza con la sua tipica prospettiva riduzionistica? Spesso vengono catalogate come semplici allucinazioni. La musica assume un ruolo centrale in tutto questo, almeno per quanto riguarda la mia personale esperienza.
Tornando alle pulsazioni, Benni apre la prima strofa con uno dei contenuti che preferisco, è il cuore che indica la strada. Non importa se le avversità contribuiscono alla costruzione di quella corazza che lo rende inaccessibile dall’esterno, lo possiamo sempre raggiungere dall’interno. Possiamo scegliere di tenerlo stretto, tendere l’orecchio per afferrare i suoi sussurri, per capire cosa davvero intende dirci, dove vuole portarci. Sta a noi decidere se seguirlo o soffocarlo. In un mondo che non sentiamo più nostro, lasciamo andare tutto e il tutto perde il suo significato, non ci facciamo più impressionare dall’assurdità dei tempi che corrono, ormai non inorridiamo più di fronte all’insensatezza inumana.
L’unico baluardo ancora in piedi è la nostra musica, che fa sempre rabbrividire di piacere, è la schiettezza e la genuinità di questa passione condivisa. Tornando alla sinergia del sottopalco, non è in alcun modo possibile scordarsi delle sensazioni che si provano ai live, quando chi sta sopra al palco versa ogni singola goccia di se stesso nelle casse e attraverso di esse colma le anime aperte e recettive, stabilendo un contatto. Contatto che in qualche modo si trasforma in legame e si salda indissolubilmente. Mai più soli.
“Dieci di noi posson bastare per cento di loro”
Vari riferimenti all’ipocrisia, all’alienazione e alla perdita di valori umani. Non sono poche le difficoltà che si riscontrano di continuo nei rapporti con le persone, con la maggior parte di loro almeno.
Rarissimo invece trovare teste in sintonia, combattiamo perciò in pochi, ma compatti. Delusi dal genere umano per l’ennesima volta perchè abbiamo creduto, di nuovo, in un legame fittizio, che in realtà esisteva solo in funzione di qualche tornaconto, qualunque sia l’interesse in questione. Non ha importanza. Materiale o immateriale. Per ottenere qualcosa di concreto o semplicemente per il bisogno di gonfiare l’ego e per la volontà di ostentare ciò che non si è realmente. Questo genere di comportamento è diffusissimo, per gli eterni idealisti diventa pesante incorrere in queste dinamiche di continuo, perchè il fatto che siano ricorrenti purtroppo non riduce la delusione che portano con sè, accompagnata da una disillusione profonda, con il tempo ci si fa l’abitudine, isolandosi automaticamente per non dover affrontare quel tipo di mondo. Una nota positiva non manca mai, anche nelle situazioni peggiori si può trovare qualcosa di buono, di certo trarne insegnamento, in questo caso sbattere contro la falsità non ci spezza, ci rinforza e soprattutto ci ricorda di restare sempre veri, in ogni istante.
“Per ogni scambio di coscienza che mi porterò per sempre dentro Per ogni notte in cui ci penso mentre mi addormento Cerco qualcosa di introvabile, roba da lacrime”
Pura poesia che merita di essere riportata e semplicemente sottolineata, perchè non è necessario aggiungere altro, non avrebbe senso. Non poteva mancare un accenno alla Placca Pioneer che richiama buona parte delle tematiche ricorrenti del gruppo.
Segue lo scratch con il campionamento dei seguenti versi: – “Goditi il presente perché da domani non t’assicuro niente” tratto da “Goditi il Presente” dei Lyricalz. – “A favore di chi è nella merda da una vita e fa parlare di sé” tratto dalla strofa di Lord Bean nel brano “Gli occhi della strada” in “Dio Lodato” di Joe Cassano.
Lo scratch alla fine del pezzo è favoloso, sono pittosto certa si tratti della voce campionata di Gruff ma non sono riuscita a trovare la traccia originale. Se qualcuno la riconosce me lo può far sapere??? Pleeeease!
Avanti…Entra Princekin nella seconda strofa con il suo dono evocativo, facendoci sempre alzare il mento verso il cielo, col suo sentirsi radicato e indivisibile dall’universo intero che alimenta l’arte, che accompagna le anime sul sentiero tracciato da un ideale, valori tanto forti da non poter essere dimenticati.
La passione che unisce, arde incessantemente, ci fa sentire meno soli e dona la forza di andare avanti, qualsiasi sia la condizione nella quale ci troviamo.
Con “rifugio di fortuna” potrebbe far riferimento anche alla nostra Terra, che ospita ma non possiede per citare Princekin in un’altro suo pezzo, lo sguardo sempre rivolto verso qualche nebulosa lontana, l’essere parte del tutto, il percepirsi come universi infiniti.
Unificati da questo ardore non solo smettiamo di sentirci dispersi e isolati, ritroviamo lo slancio e la conseguente energia che ci permette di mantenere un’attitudine positiva verso la vita, l’atteggiamento costruttivo necessario a realizzare ciò in cui crediamo.
In cosa crediamo? In un sogno, in un futuro progettato su fogli scarabocchiati, sui quali l’inchiostro dilaga dando forma ad oceani sconfinati, senza più ostacoli.
I sogni e l’amore sono sullo stesso piano e non si vendono, nè si comprano; non si possono proprio stimare, nè sciupare o depredare. Questo è un concetto che si comprende solo ed esclusivamente vivendolo. Il verso che segue riguardo ai social lo condivido molto. Non ho mai avuto un profilo facebook, quando mi chiedevano un contatto spesso ero costretta a giustificarmi, a sorbirmi la stessa, inutile retorica. Sei tagliato fuori dal “mondo”, perdi l’opportunità di tenerti in “contatto” con gli “amici”, rinunci a tutte le comodità “gentilmente offerte” e non puoi evitarlo per sempre, dovrai adeguarti.
Spero sia già abbastanza chiaro il senso di tutte quelle virgolette, a volte le parole assumono un significato estremamente diverso da quello che potrebbe essere il loro valore universale, in base ai caratteri intrinseci che ognuno associa a quel determinato vocabolo.
Quando due persone pronunciano lo stesso identico termine non stanno necessariamente dicendo la stessa cosa, vogliono comunicare quello che secondo loro quella parola rappresenta ma non è detto che entrambi ci vedano dentro le stesse cose. Per questo a volte il linguaggio crea delle grosse interferenze.
Tornando ai social, esclusa l’unione iniziale per la scelta vaccinale, i primi gruppi che mi è capitato di frequentare su telegram sono quelli che stanno spuntando come i funghi in questo periodo pandemico di azioni liberticide e continue violazioni dei diritti individuali e collettivi.
Potrebbe essere una forma di aggregazione positiva se non fosse per l’atteggiamento generalizzato che si riscontra in questi contenitori di dissenso già altamente compartimentati dove una buona parte di chi si definisce “illuminato” giudica il resto del mondo con la stessa arroganza che dice di voler combattere, torna nello stesso recinto dal quale dice di voler uscire focalizzandosi sempre sui soliti argomenti nel tentativo di scardinare quei meccanismi che invece si ritrova inconsapevolmente ad alimentare.
Seguendo l’esempio di Princekin: chi ha orecchie per intendere, intenda. Chiusa parentesi.
Non poteva mancare infine un accenno ai viaggi interstellari tanto amati dai XVI Religion, che già nel 2016, forse percependo l’avvicinarsi di un periodo buio come quello che stiamo attraversando ora mentre scrivo, sentirono il bisogno di “radunare adepti per la fine dell’opera”.
Anime libere da ogni limite imposto, che sviluppano la capacità di elevarsi oltre i loro confini, che non hanno bisogno dell’approvazione di nessuno e “brillano di luce propria”.
Quella luminosità essenziale a spazzare via l’oscurità che avanza inesorabile, quella tenebra che ci avvolge, troppo spesso senza incontrare resistenza, senza alcuna difficoltà.
Con le cuffie nelle orecchie come tutte le mattine infilo gli anfibi ed esco per andare al lavoro, sorrido mentre varco la porta d’ingresso e realizzo ciò che ho appena sentito, l’inconfondibile e graffiante voce di Princekin che apre la prima strofa dicendo: “Dai usciamo, mettiti le scarpe, oggi visita su Marte”, mi blocco perplessa per qualche secondo prima di girare la chiave nella serratura e mi dico divertita… “Vaaaaa bene! Ci sono, scarpe messe e sto proprio uscendo! In realtà dovrei recarmi al lavoro ma quando mi ricapita un viaggio sul pianeta rosso?”. La vicina che passa la sua esistenza alla finestra avrà sicuramente pensato che come al solito stessi parlando da sola, ma stavolta no! Stavo rispondendo alla bellissima sincronicità che l’universo mi aveva regalato.
Faccio ripartire la canzone mentre mi metto alla guida e mi perdo tra quei monti gialli e quella sabbia finissima, devo ammettere di essermi davvero abbandonata alla sua capacità evocativa. Ho avuto qualche difficoltà nel decidere come proseguire sull’analisi perchè non conosco i lavori da solista di John Princekin, ma sono rimasta piacevolmente sorpresa, questo pezzo mi è piaciuto molto. Con il suo intro tratto da Waking Life non poteva mancare nella nostra settimana tematica quindi alla fine ho scelto di inserirlo ugualmente e mi sono ritrovata a sorridere di nuovo perchè proprio di scelte tratta.
Non ho la pretesa di spiegare nel dettaglio ogni suo riferimento e non mi sento in grado di azzardare un’interpretazione che vada oltre le mie semplici riflessioni su alcuni specifici passaggi. Tra le particolarità che mi hanno fatto innamorare di questo genere c’è la seguente: certi pezzi li assapori piano piano, un po’ come quando conosci una persona e ogni volta scopri qualcosa di nuovo su di lei, come se la stessi spogliando lentamente, sotto a ogni parte superficiale che levi, trovi qualcosa di più profondo e arrivi a comprendere la sua interiorità.
Accade proprio come quando incontri qualcuno, i punti che si hanno in comune sono quelli che spesso tendono ad avvicinare inizialmente, così come i significati che cogli al primo ascolto di una canzone sono quelli che magari risuonano di più con la sinfonia del tuo mondo, con la percezione della tua realtà. Proseguendo nella conoscenza è probabile trovarsi in disaccordo ogni tanto, non condividere proprio tutti gli interessi o pensarla in modo totalmente diverso su determinate questioni, così come nella musica, è possibile rimanere incantati da un singolo brano pur non conoscendo o non condividendo tutte le tematiche trattate dall’artista. Durante gli ascolti successivi, in base al tempo passato e al proprio percorso di crescita si capiscono cose sempre diverse, maggiori dettagli, particolari che non ti avevano minimamente sfiorato, un po’ come capita con certi libri, i più belli.
Il messaggio che ho ricevuto dalla prima strofa è semplice e lo condivido parecchio, è sconfinata la follia di questa nostra società moderna, così frenetica e sempre in corsa verso il nulla. Si ha la sensazione che più niente abbia valore, fatta eccezione per quello economico. E’ difficile credere che nonostante la meta sia inesistente, le energie impiegate nel rincorrere quel fine illusorio siano reali, ma in definitiva lo sono e da qualche parte inevitabilmente porteranno, senza la minima cognizione di causa probabilmente ci condurranno proprio verso quelnulla, ma non sarà certo…nulla di buono.
Il ritornello mi ha colpita molto, mi ha trasmesso un forte senso di unione, consolidando i pensieri di questo ultimo periodo e confermandomene soprattutto uno: perchè continuare a focalizzarci sulle differenze anzichè lasciar confluire i punti di forza verso un unico obiettivo? Verso qualcosa di vero, in fondo, non abbiamo tutti lo stesso sole davanti? Pure il riferimento all’istinto che tanto è andato perduto con il sopravvento della fredda ragione mi è piaciuto tanto, avendo continuamente a che fare con quel tipo di “razionalità” che appare sempre e paradossalmente più folle del semplice sentire. Qualunque sia alla fine la destinazione, ci arriveremo tutti in un modo o nell’altro, prima o poi.
Trovo la seconda strofa ancora più significativa per quanto riguarda le scelte, i limiti mentali che spesso ci autoimponiamo, l’ostinazione nel restare ancorati a ciò che sarebbe meglio lasciar andare prima che trascini tutto giù con sè. A volte accade perchè si è lavorato tanto su quella precisa rotta e il solo pensiero di rimettere tutto in discussione terrorizza, a volte semplicemente non si vedono alernative all’orizzonte e si preferisce restare a galleggiare sul posto, dimenticandosi perfino della sete, nell’attesa di veder comparire un ombra stagliata nel cielo, perchè non si trova il coraggio di mettersi a nuotare verso lo sconfinato mare aperto senza sapere cos’ha in serbo il futuro, oltre quella misteriosa e netta linea che divide acqua e nuvole.
So, my mind bring me the horizon and go on.
“E allora alzati, vieni con me che ti mostro quanto sbagli Quanto è facile voltare pagine e cucire tagli Non è vero che non è una scelta aperta Questo è un fiume dove ogni ramo è collegato nel suo delta”
Pura poesia, credo che i miei versi preferiti siano questi, tornando al fatto che siamo tutti diretti verso lo stesso porto. Capita di sentirsi in balia delle onde, attanagliati dalla paura di finire sotto, di non riuscire più a risalire in alcun modo e infine di affogare miseramente ma “tutto muta, nulla si ferma” e si trova il modo di stare a galla imparando a scivolare in mezzo al delirio, a seguire la corrente senza farsi travolgere.
Il pezzo si conclude con il monologo di Waking Life che ci siamo goduti oggi all’ora dei vespri seguito da un’altro estratto del film “L’attimo fuggente”. Direi che si commentano bene da soli, lascia senza parole, e senza fiato per un istante, anche l’outro con un accenno a “Moonlight Sonata” di Beethoven.
Kaos (Marco Fiorito, 1971-Caserta) è uno dei precursori dell’hip hop in Italia, inizia con le altre arti che contraddistinguono questo movimento: la break dance e i graffiti. Prosegue come MC e sta anche dietro ai piatti per alcuni suoi lavori, comincia con il rap in inglese per poi passare all’italiano, si può quindi considerare uno degli artisti più completi della scena e un fiero rappresentante del più puro e vero underground. Che altro aggiungere?
Semplicemente un “dannato” poeta che scuote e fa vibrare la tua anima con le corde vocali, soprattutto dal vivo, quando ci si fonde tutti in un’unico suono, nella stessa vibrazione.
Pandemia. Curioso, lo so, suona così familiare in questo periodo non è vero? Pensiamo all’ultima nostra settimana o all’ultimo mese, in realtà potremmo prendere in considerazione l’intero anno. Si, è passato un anno bella gente.
Quante volte abbiamo sentito o pronunciato questa parola, calcolando anche tutte le sue varianti quali pandeminchia, pseudopandemia, psicopandemia e via dicendo? Quante volte abbiamo nominato il suo fedele compagno dai petali petalosi o, per stare in tema, le sue varianti più “simpatiche” quali coronavairus, minchiavirus, ginovirus e via dicendo? Chi ce lo fa fare? A chi importa il numero esatto di volte? Viene la nausea solo a pensare di doverci pensare quindi andiamo semplicemente avanti tornando indietro. Rewind.
Pandemia. Non è quello che vi aspettereste di sentire, non è quello di cui vorreste parlare probabilmente o quello che tutti siamo costretti in un modo o nell’altro a subire, è altro. A mio avviso, uno dei pezzi migliori di kARMA, il terzo album di Kaos. Sarà che ho lasciato dei pezzi di cuore sottopalco ai live quando la sinergia tra le persone che cantano all’unisono era talmente forte da non riuscire a descriverla e nei momenti difficili mi veniva sempre in mente, mi dava sollievo.
Credo di essermi ripetuta la sua prima rima centinaia di volte, l’avrò cantata davvero centinaia di volte, quando stavo male per qualcosa mettevo le cuffie, lasciavo che la voce rauca di Kaos alleviasse il mio dolore e alleggerisse la zavorra che comprimeva il mio costato.
“A questa vita non ho chiesto niente in fondo Manco di venire al mondo Mi domando se c’è un senso e non rispondo”
Può sembrare banale se non ci si presta la dovuta attenzione, la trasformavo in un mantra e rieccheggiava nella mia testa con la sua disarmante elementarità finchè raggiungevo una sorta di rassegnazione cosmica che mi permetteva di superare più facilmente quell’ostacolo. Giusto o sbagliato andavo avanti e stavo meglio, quando non ce la facevo più a volte svuotavo la testa dalle domande invece di ostinarmi a volerla riempire con le risposte.
A volte se pensi all’universo intero ti rendi conto di quanto piccolo sei e diventano più piccoli anche i tuoi problemi, forse, o semplicemente ti rendi conto che alla fine passerà. Farai come hai sempre fatto, ti sei lasciata alle spalle l’ostacolo precedente e quello prima ancora, in un modo o nell altro, e così sarà per quello che hai di fronte e per il successivo.
A tal proposito, un amico ha condiviso con me la seguente citazione di Jodorowsky:
“decisi di lasciarmi andare alla corrente, di non fare la minima resistenza al destino, in qualsiasi forma si presentasse. Niente che m’era successo finora era bastato a distruggermi; nulla era andato distrutto, se non le mie illusioni. Io ero intatto. Il mondo era intatto. Domani poteva anche esserci la rivoluzione, l’epidemia, il terremoto; domani poteva non restare viva un’anima a cui volgersi per compassione, per aiuto, per fede. A me sembrava che la grande calamità già si fosse manifestata, che io non potevo esser più veramente solo che in quel preciso momento. Decisi che non mi sarei attaccato a nulla, che non avrei atteso nulla, che d’ora in poi avrei vissuto come un animale, una bestia da preda, un pirata, un predone.”
Riassume bene lo stato d’animo che ho cercato di descrivere. Ti eclissi, oscurando la tua carcassa per proteggerla, per proteggere quel che ancora è restato intero.
“Nascondo quel che è rimasto di me stesso Ma ora il tempo sta scadendo e sono ancora in questo posto”
Non so perchè ho sempre pensato a questa interpretazione, il bello di certi testi è proprio questo, ti si modellano addosso, ti entrano nell’anima e non puoi più farne a meno. Pensando al tempo e alla sua fine, se di fine si può parlare, nascondi quello che ti è rimasto attaccato di buono dopo l’ultimo scontro con la vita, seppellisci quella parte di te per non rischiare di perderla del tutto ma la linea è sottile e così facendo rischi di rinunciare a questo luogo e a questo tempo. Potresti pagare un prezzo molto più alto di quanto quella parte di te vorrebbe, la tua anima che si arrende e ormai sepolta, non è più in grado di protestare.
Per Kaos il seguente passaggio è forse una provocazione verso Dio? Verso la promessa di un paradiso dove il dolore non esiste nonostante il peso di essere giudicati tutti colpevoli dalla nascita, macchiati dal peccato originale.
“Il resto è sentenza che mi ha visto già colpevole Insisto su un punto debole: sto Dio c’ha troppe regole”
Ci si potrebbe domandare come può la semplicità dell’essere, dell’uno nel tutto, sottostare alla complessità imposta dalla religione che appare sempre più umanizzata, sempre più subordinata al pensiero dell’uomo con tutti i suoi difetti, sempre più lontana da quello che dovrebbe rappresentare, specchio della vera essenza di Dio.
Segue una delle considerazioni più comuni, una delle classiche domande che non è possibile evitare nel disquisire sull’esistenza di un Dio: perchè mai avrebbe creato il male? Credo sia capitato a tutti di chiederselo almeno una volta nella vita e anche il passo successivo viene abbastanza naturale, il rendersi conto di non desiderare il perdono di nessuno perchè la colpa che ci è stata tramandata, l’affronto commesso dai progenitori dell’umanità, non sembra nemmeno lontanamente paragonabile alla cattiveria e all’ingiustizia che caratterizzano il nostro mondo terreno, considerato appunto un inferno fin troppo reale e tangibile.
Con paradiso artificiale potrebbe far riferimento sia alla ricerca di un benessere riprodotto e sintetico, sia alla messa in discussione della sua vera esistenza, tornando al discorso delle imposizioni religiose e all’attribuzione antropomorfa che ne deriva.
Un’altro passaggio che risulta immediato è il constatare quanto tutto appaia capovolto e privo di ogni logica mentre si cerca di comprendere la sua legge che di nuovo, non fa pensare a un qualcosa di sacro e divino, ma si mostra più funzionale all’egoismo della nostra civiltà e alla sua viscerale necessità di dominio.
Kaos conclude la prima strofa sottolineando una contraddizione che può passare inosservata, nel Padre Nostro si recita: “non indurci in tentazione ma liberaci dal male” anche se da sempre ci viene insegnato che a tentarci è invece il maligno. Un’altro dubbio che sorge spontaneo riguarda proprio la traduzione dal greco di quel verso, che è stata oggetto di controversia. Alcuni ritengono sia esatta l’originale, tradotta letteralmente con il verbo “indurre” mentre per altri andrebbe sostituita con la più morbida e probabilmente politicamente corretta: “non abbandonarci nella tentazione”. Sarà che si adatta sicuramente meglio alla narrazione della nostra cara Diocesi? Perchè mettere in dubbio la correttezza della traduzione proprio quando iniziano a sollevarsi le obiezioni che fanno emergere le incongruenze con alcune parti della versione cattolica ufficiale? Uno spunto per approfondire.
Arriviamo così a riflettere sulla differenza tra due elementi che potrebbero essere considerati una cosa sola ma sembrano sempre più distanti l’uno dall’altro. Da una parte la Chiesa come istituzione con tutti i coinvolgimenti che ne derivano, dall’ancestrale bisogno di controllo al più moderno e capitalistico interesse economico, la Chiesa strettamente legata all’uomo e di conseguenza inscindibile dalla sua innata corruttibilità. Dall’altra parte la sacralitàdella religione. Possono apparire come linee parallele che osservate da una particolare prospettiva sembrano sovrapporsi ma in realtà non si incontrano mai veramente.
Il ritornello parte con le parole che si pronunciano mentre si fa il segno della croce e racchiude nella frase successiva tutte le perplessità esposte nella canzone, Kaos fa riferimento ad un equivoco e si domanda quanto di veramente sacro ci sia in questo credo, che si trova in una situazione sempre più precaria. Siamo immersi nelle tentazioni con dei comandamenti da osservare, siamo istigati a peccare, minacciati dalle fiamme e allo stesso tempo ricattati con la promessa della vita eterna.
Si apre la seconda strofa riproponendo un verso sul peccato originale e introducendo il libero arbitrio che non può di certo essere esercitato dal bambino nel momento del suo battesimo. Allo stesso modo, non è stato interpellato nessuno, non è servito alcun secondo parere quando è stato creato l’inferno appositamente per punire chi disobbediva, nonostante Dio venga dipinto come misericordioso e disposto a perdonare tutto e tutti, un’altra contraddizione che fa notare Kaos in modo implicito stavolta, solo accostando all’amore infinito la creazione degli inferi.
Nel verso successivo quel “Dov’era?” potrebbe riferirsi di nuovo al concetto di libero arbitrio ma potrebbe anche essere rivolto direttamente a Dio, che nei momenti difficili viene invocato spesso e in mancanza di un segno ci si rassegna alla perdita della fede, alla scomparsa di ogni speranza.
Citando De Andrè:
“Non nominare il nome di Dio, non nominarlo invano con un coltello piantato nel fianco, gridai la mia pena e il suo nome. Ma forse era stanco forse troppo occupato, e non ascoltò il mio dolore. Ma forse era stanco, forse troppo lontano, davvero lo nominai invano.”
Spesso quando si soffre a causa dei comportamenti “umani” ci si interroga sulla fede, il pensiero vola verso l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, la domanda sorge quindi spontanea, se davvero siamo le sue copie alberga anche in lui, come in noi, la parte oscura che è artefice o che permette le più ignobili atrocità? Su questa linea arriviamo ad analizzare la figura di Lucifero che viene presentata dalla Chiesa come oltraggiosa e sbagliata.
Premetto, non è mia intenzione urtare la sensibilità di nessuno, non ho risposte in tasca e quello che sto per scrivere ha per me una connotazione esclusivamente simbolica e figurativa. Cercando di mettere da parte ogni preconcetto, senza soffermarci a speculare sulle varie teorie riguardanti le differenze tra Satana e l’angelo caduto, prendendo in esame solo ed esclusivamente i “fatti” che la Bibbia ci narra e l’interpretazione del Cristianesimo, si potrebbe in effetti considerare il “portatore di luce”, appunto, come quello che appare: un semplice rivoluzionario, un dissidente che si è ribellato ed è stato esiliato. Che abbia cercato di aprire gli occhi dell’uomo sull’illusione nella quale viveva la sua esistenza? Tentandolo con quel frutto proibito, con l’albero della conoscenza? Anche se può far inorridire perchè inverte ogni prospettiva, viene quasi spontaneo azzardare un paragone tra il regno dei cieli e il nostro sistema attuale, che mette al rogo chi dissente e chi è in cerca di verità.
Non poteva mancare una forte critica alla Chiesa. Nonostante le belle parole scritte sul breviario a proposito degli emarginati credo che nemmeno il più convinto credente possa negare la presenza di questa forbice “invisibile” che sta dividendo i pochissimi ricchi dai moltissimi poveri. Innegabili anche i rapporti con lo Stato e il sangue che è stato versato negli anni tra crociate e terribili delitti isolati, come non si può negare la sconfinata ricchezza in ballo.
Una sera, gironzolando a Roma, misi qualche moneta nel cappello di un senzatetto, uno che in strada ci viveva davvero, non uno di quelli con le scarpe in ordine. Il mattino dopo mi ritrovai malauguratamente incastrata nei musei del Vaticano, in un soleggiato giorno di primavera, quando in realtà avrei voluto essere altrove, a Parco Savello magari…se non direttamente verso Roma Sud, al Villaggio Globale magari. Ripensai alle scarpe di quell’uomo e l’infinita quantità di oro sparsa in ogni angolo mi parve indecente e mi fece venire la nausea, circondata da tutta quella opprimente magnificenza e da quello sfarzo asfissiante…quasi mi mancò l’aria. Sono passati 15 anni e ancora ricordo, come fosse ieri, quel fastidio che grattava dall’interno e quella pressione che percepivo dall’esterno. Iniziai quindi ad allungare il passo verso la porta con la freccia che indicava l’uscita, ma per ogni salone attraversato, dopo ogni fottuto corridoio, ecco una nuova fottuta porta con attaccata una nuova fottuta freccia. Questa cosa amplificò le mie brutte sensazioni e alla fine mi spazientii, iniziai a correre. Ve le immaginate le espressioni sui volti dei turisti? Finalmente fuori, presi una boccata d’aria e sgattaiolai nel primo barettino che incontrai per farmi una birra, che in quel momento fu necessaria, come l’ossigeno. Mi resi conto di quanto poco avessi in comune con realtà di quel tipo e di quanto sentissi il bisogno di allontanarmi. Come Kaos, preferii la scomunica. Aneddoto finito, possiamo andare avanti.
Quando fa riferimento al “disegno più grande” credo voglia andare oltre i recinti che la religione alza, per avvicinarsi alla vera essenza, per tentare di capire davvero chi siamo e perchè siamo qui. I quesiti si moltiplicano perchè più ci si sforza di comprendere ma soprattutto più si crede di capire, maggiori saranno gli interrogativi. Il sangue sulla lapide che si espande può rappresentare proprio l’efferratezza dei peccati della Chiesa ma essendo collocato appena dopo le domande che aumentano inesorabilmente con la consapevolezza, può allo stesso tempo essere paragonato alla sete di conoscenza che accomuna chi è in fase di ricerca da una vita.
“Penitenziatige” è l’abbreviazione in volgare di questa frase latina: «Poenitentiam agite, appropinquavit enim regnum caelorum», significa «Fate penitenza, ché il regno dei cieli è vicino» e considerati gli spargimenti di sangue sopracitati, non ha bisogno di alcun commento.
La terza strofa parte con un ultimatum che Kaos sembra dare a se stesso, rompere definitivamente e allontanarsi quindi per sempre dal mondo religioso o decidere di restarci incarnando le sue contraddizioni. Ci mette un millesimo di secondo a scegliere, dopo tanto implorare e chissà quanti tentativi, dice basta, vivere una vita col collare per un’evanescente promessa di pace, anche se tra sicurezze ed agi, non è facilmente accettabile e sopportabile da tutti, inoltre è arrivato a pensare che ci sia davvero poco di “concreto” in quanto professa la religione, vista più come un’antica forma di controllo collaudata nei secoli, che come la vera espressione del divino.
Torniamo alla ricerca della verità che può sopraffare e consumare se non viene vissuta e gestita con lo spirito adatto a decifrare e a metabolizzare la crescita, se non si è disposti ogni tanto a lasciar andare, a volte ad accettare di tornarci quando sarà il momento e soprattutto ad avere la mente tanto aperta da riuscire a mettere continuamente in discussione se stessi e tutte le proprie certezze, per superare quindi ogni condizionamento, interno od esterno che sia.
Da sempre l’uomo detta legge provando a far passare le sue “verità” come assolute, tentando di nascondere quelle meno funzionali alla sua visione del mondo o peggio, ai suoi interessi, cercando di sopprimere tutte le alternative scomode. Può essere dovuto ad un subdolo meccanismo mentale che ci spinge a voler avere conferma della nostra lettura? A volerla rinforzare attraverso l’imposizione?
“In girum imus nocte et consumimur igni” è una frase latina palindroma, che da destra come da sinistra significa “Giriamo in tondo nel buio e siamo divorati dal fuoco”.
Lascio all’ultimo verso libera interpretazione anche perchè la mia si deduce facilmente dai paragrafi sopra e credo di essermi già dilungata troppo come al solito.
Non è possibile parlare davvero di underground senza far riferimento al rave. Il termine mondo è in questo caso tanto azzeccato quanto necessario per cercare di fornire una panoramica sufficientemente ampia e una visione quanto più possibile completa del fenomeno. La “festa”, come viene semplicemente e comunemente chiamate da chi la vive, è in effetti, senza ombra di dubbio, un universo parallelo.
“La caratteristica più sorprendente dei rave è che essi sono riusciti a crearsi un mondo ed un linguaggio tanto particolari da generare un vero e proprio fenomeno di cultura.” Questa subcultura è stata dapprima totalmente ignorata e successivamente mal raccontata, fino ad arrivare alla tipica polarizzazione delle opinioni. Posso capire sia apparentemente incomprensibile e difficile da credere ma posso anche assicurare che alla base c’è molto più di quanto si possa superficialmente immaginare. E’ sopravvissuta una parte della filosofia delle origini nata negli anni 60, questo almeno fino al 2011, quando ho scelto, in parte dolorosamente, di allontanarmi da quel mondo che nonostante le sue contraddizioni e prima della sua degenerazione celava un grande potenziale.
Oltre al fastidio per il turbamento dell’ordine pubblico causato da alcune, e ripeto, alcune di queste realtà, c’era di più, oltre alle sacrosante lamentele per certi comportamenti poco opportuni, se non assolutamente inaccettabili di alcuni, e sottolineo di nuovo, alcuni personaggi al limite della follia…c’era dell’altro. Dietro all’immagine generalizzata e strumentalizzata che ha dato vita allo stereotipo si nascondeva un universo di infinite sfaccettature. Cercherò quindi di rendere visibili anche gli angoli che restano fuori dai coni di luce, direzionati dalle mani che impugnano le torce.
Chiunque sia incappato in un servizio del mainstream sull’argomento può essersi facilmente fatto un’idea riguardo le mie sopracitate allusioni, accenni che per ora, rimarranno tali per un semplice motivo: ci ha già pensato la stampa di regime a mettere l’accento sulle criticità e sui problemi legati alle feste, con il suo solito modus operandi, quell’abile lavoro di taglia e cuci montato ad arte tra distorsioni e omissioni.
La situazione non migliora nemmeno se ci si avventura in rete digitando la parola “rave” e aprendo a caso le pagine che ci vengono proposte, anche in questo caso è probabile cadere nel tranello del giudizio basato sull’incompletezza degli elementi, a volte pure snaturati, che rischiano di andare a creare dei preconcetti come minimo limitanti se non totalmente alterati. Meccanismo che si ripete di continuo, non mi riferisco solo al tema trattato, è una dinamica diffusa ovunque.
Rave significa scatenarsi in modo eccitato e incontrollato ma è anche il parlare o lo scrivere di qualcosa con grande entusiasmo, ed è proprio ciò che mi sto accingendo a fare. Sorrido nel rendermi conto che, a parte qualche documentario di nicchia e qualche blog, la fonte alla quale dobbiamo la maggiore esaustività e oserei aggiungere imparzialità sul tema è wikipedia, alla voce “free party” ,credo basti per rendersi conto dell’immensa lacuna comunicativa esistente.
“Nella sua connotazione più politicizzata questo fenomeno vuole creare una zona libera dai grossi flussi economici e dai tempi della società civile, in cui la musica può andare avanti per interi giorni, ottenuta mediante la pratica dell’occupazione e regolata attraverso la possibilità di accedervi liberamente. L’organizzazione di questi eventi non riconosce, e spesso contesta, la legalità come limite applicabile alla propria possibilità di articolazione e le forme di socialità offerte e comunemente imposte.” Direi che questa è un ottima definizione.
Uno degli scopi principali era quello di staccarsi completamente dalle dinamiche economiche che facevano girare l’industria del “divertimento”. Pagare cifre esorbitanti un biglietto d’ingresso per ballare solo qualche ora accanto a persone che non sentivi simili a te, magari ringraziando se ti concedevano un cocktail annacquato, la musica che non ti rispecchiava, il tragitto dal guardaroba al bar visto come una passerella, per sfoggiare l’ultimo paio di jeans Armani anche mentre ci si dirige verso il bagno per ritoccarsi la maschera, tornare in pista ad idolatrare il DJ come se camminasse senza toccare il suolo. Anche no, grazie.
La rappresentazione perfetta di questa società gerarchica fondata sull’apparenza più che sulla sostanza. Non è mia intenzione generalizzare, non credo fosse così ovunque e non credo nemmeno fosse così per tutti. Parlo basandomi sulla mia personale esperienza e sulle mie sensazioni che di fatto, sono queste.
Crescendo ho imparato ad apprezzare anche alcune serate nei locali, a concentrarmi solo su ciò che di buono vedevo e a pagare riconoscendo il valore di certi artisti ma c’è stato qualcosa allora, molto più di qualcosa, che mi ha spinto con una forza prorompente verso il mondo dei rave quando ero ancora una ragazzina.
Ho sempre preferito il fango sugli anfibi alla lacca sulle scarpe immacolate, la polvere che i subwoofer mi lasciavano sulle mani alle tracce di fondotinta e i jeans strappati a quelli firmati, non che potessi permettermeli ma anche se avessi potuto, avrei speso quei soldi in altro, questo poco ma sicuro.
Ho sempre visto la festa come un luogo dove potermi esprimere liberamente, come ciò che sentivo di essere in quel momento, senza correre il rischio di farmi sputare addosso giudizi gratuiti e non richiesti. Un luogo aperto di ricerca e sostanza, non una scatola di imposizioni e di esteriorità. Un luogo dove non fregava un cazzo a nessuno se la mattina avevo quel poco di matita per gli occhi che mettevo sbavata fino alle guance perchè avevo riso fino alle lacrime e infine, con i DJ al massimo ci scherzavo condividendo una birra, non mi pare di ricordarli mentre camminavano senza toccare il suolo dato che avevano le scarpe infangate quanto le mie, così come quelle di tutti.
Si creava perciò una vera e propria alternativa al business dei locali, ci si trovava spesso nelle fabbriche dismesse che, oltre alla loro funzionalità in quanto situate in periferia e di conseguenza perfette per ospitare molte persone e kilowatt di suono senza dare troppo nell’occhio, venivano inizialmente scelte come forma di occupazione simbolicamente legata alla rivendicazione degli spazi destinati ai proletari, spazi che col tempo sono stati abbandonati e dimenticati come è stato “abbandonato e dimenticato”, del resto, anche il proletariato. Purtroppo è capitato di respirare inconsapevolmente quello stesso amianto che erano costretti a inalare gli operai sottoposti a turni di lavoro estenuanti, esclusi questi “piccoli dettagli”, si ridava vita agli scarti della società consumistica moderna, riappropriandosi di quei luoghi, simbolo di schiavitù e conformismo e dando loro una connotazione diametralmente opposta all’originale. Il capannone non era più vissuto come una gabbia, emblema dello sfruttamento in nome del mercato, ma come ritrovo di menti e cuori che andavano contro le logiche imposte da quel sistema che la grande industria rappresenta.
“Vengono progettati nuovi significati per i luoghi: vagoni di treni bloccati e fatiscenti diventano anomali salotti per incontrarsi, capannoni, fabbriche in disuso si trasformano in dance hall in cui individualità, appartenenza e radici si fondono in un brulicare di vita.”
I ravers sono essenzialmente considerati dei disadattati irrispettosi che si lasciano alle spalle solo sporcizia e distruzione, sono spesso definiti come dei drogati senza la benchè minima aspirazione (approfondirò in seguito, nei prossimi articoli, il discorso legato alle innegabili criticità e a tutti i valori della filosofia origininaria che è andata a perdersi durante gli anni). Posso essere d’accordo sul disagio semplicemente perchè di fatto, chi frequentava quel tipo di ambiente era di bassa estrazione sociale, quindi già economicamente ai margini, chi più chi meno. Ideologicamente contrapposti alla cosiddetta borghesia in sè e a tutto ciò che incarnava, consapevoli riguardo alla fatica che si riscontrava nell’adattarsi e nell’integrarsi totalmente.
Dissento invece sul giudicare a priori i ragazzi come svogliati ed evanescenti ectoplasmi capaci solo di s-ballare e tralasciando alcuni casi limite, vorrei rendere giustizia perlomeno ad alcuni di loro e in particolar modo agli organizzatori. Per dimostrare e avvalorare questa mia affermazione vorrei porre alcune domande un filo provocatorie, non sono rivolte a nessuno in particolare, forse servono solo per esorcizzare un po’ i pregiudizi che il sistema ha vomitato addosso a chi in realtà non se lo meritava affatto, concedetemelo.
Avete idea del tempo, della fatica e dell’impegno necessari per l’organizzazione di un party totalmente autogestito?
Vi siete soffermati ad osservare un muro di casse spostando lo sguardo dai bancali poggiati a terra per sostenerlo alle cinghie che lo tengono stretto insieme per arrivare poi su fino ai tweeter più alti?
Ma soprattutto, avete mai visto cosa c’è dietro a quei 60 o 70 kilowatt? Il mio non è un “dietro” solo in senso figurato, mi riferisco a tutta l’attrezzatura: gli amplificatori, i mixer, tutti i rack e le taniche di benzina, i generatori. Avete idea di quanto pesa un generatore da 10 kilowatt? Apriamo le porte all’empatia, proviamo a comprendere chi metteva anima e corpo al servizio di un ideale, a chi si prosciugava per far ballare le persone senza pretendere nulla in cambio, disinteressatamente.
– Serviva un luogo adatto per montare, se possibile si faceva un sopralluogo per verificare non ci fossero pericoli e nel caso si tentava di mettere in sicurezza, coprendo almeno i buchi per evitare che, al buio, ci finisse dentro qualcuno.
– Si caricavano i furgoni ed era bene ricordarsi di riempire tutte le taniche per evitare che la benzina scarseggiasse nel pieno della festa, per non doversi fare i km a piedi magari, verso il distributore più vicino, nel cuore della notte, passando per le stradine più sperdute, perdendosi cercando di aggirare le forze dell’ordine appostate all’ingresso per “tenere sotto controllo la situazione”.
– Si faceva il carico per il bar: casse su casse di acqua e birra, qualche superalcolico, qualche stecca di sigarette. Una delle persone più vere e autentiche che abbia mai conosciuto in vita mia ha detto addio agli ammortizzatori della sua punto per divertire e dissetare la gente alle feste.
– Finalmente in viaggio e si arrivava sul posto. Si scaricava tutto, si montavano il sound e il bar con gazebo e tavoli, si appendeva la “scenografia” se ci si era ricordati di caricarla.
– Cominciava il “calvario dell’info”. Rispondi e attacca. Rispondi e attacca. Ore con l’orecchio incollato al telefono a ripetere incessantemente le indicazioni stradali, ore a ripetere la stessa identica frase fatta eccezione per quelle volte che qualcuno ti diceva cose del tipo “Oh ma alla farmacia dobbiamo svoltare a destra o a sinistra?” e tu manco l’avevi vista una farmacia perchè magari eri arrivata dalla direzione opposta, quindi niente, si cercava il modo di aiutare i dispersi a raggiungere il posto.
– Cominciava il “calvario del bar”. Ore ed ore in due o tre dietro a quel tavolo sperando di riuscire a racimolare almeno i soldi della famosa benzina. Sempre i soliti due o tre, stufi marci di ballare davanti alla cassa dei soldi, si bramava la cassa acustica vera e propria e si sperava di veder sbucare qualche volenteroso per il cambio turno perchè quando finalmente quel momento arrivava, eri finalmente libero di ballare seriamente attaccato ai coni. Potevi anche dormire un po’, fino al turno successivo almeno, ma se ti andava bene eri libero fino al momento di smontare, quando si riavvolgeva il nastro rifacendo tutto al contrario.
– Sperando di vedere gli altri apparire al più presto nello specchietto retrovisore, ti dirigevi verso l’autostrada, pregando di non sentire il telefono squillare e di non dover andare a recuperarli in questura perchè i furgoni venivano sequestrati e loro erano a piedi ovviamente, se ti toccava tornare indietro facevi quattro chiacchere coi carabinieri che facevano solo il loro lavoro, ti preparavi psicologicamente al salatissimo preventivo della lettera di dissequestro e tanti saluti al recupero della maledetta benzina perchè tutto il ricavato del bar sarebbe finito nelle tasche dell’avvocato.
Se invece andava tutto bene te ne tornavi a casa sfinita ma felice. Doccia veloce e via a letto. Le lenzuola pulite che avvolgono le gambe stanche, la morbidezza del materasso dopo minimo 32 ore che non lo vedevi e 8 ore di sonno sono tutto ciò che chiedi, fino alla sveglia delle 7.30 che ti trascina fuori dal sogno riportandoti alla realtà della scuola o del lavoro, che ti ricorda insistentemente di tornare alla tua vita normale.
Si, “normale” qualsiasi cosa significhi. Mettiamo da parte un attimo i cliché e i luoghi comuni, tra i quali troviamo lo spauracchio del raver sporco, brutto e cattivo.
La maggior parte dei ragazzi che ballavano alle feste anzichè in discoteca conduceva una “normalissima” esistenza, tirando a campare come chiunque altro. La mattina alle 8 in classe, non sempre in forma smagliante ma presenti. A volte partivo direttamente con lo zaino pronto per il lunedì e capitava di rileggere qualche capitolo appena arrivata o prima del viaggio di ritorno verso casa, come alla festa qui sotto, caduta proprio il weekend prima degli esami.
Ripassavo per la terza prova mentre l’impianto faceva vibrare la sedia, il camper, i muri e ogni mia singola cellula, mi sono pentita di alcune scelte negli anni, ma se mi ritrovassi catapultata indietro non rinuncerei a quel momento, per niente al mondo.
Alla luce di quanto sopraelencato, come potrebbero dei “disagiati senza la benchè minima aspirazione”, dei drogati buoni a nulla, essere in grado di concepire e realizzare degli eventi di tale portata? Non ho mai incontrato, in nessun altro ambito, tanta disinteressata passione. Ai rave ho conosciuto persone che di propositi ne avevano da vendere e non erano dettati dalla più vile ambizione ma erano spinti da un anelito di libertà.
Ricordo un pomeriggio di settembre, l’acqua veniva giù dal cielo “a secchiate”, non sto esagerando, i tergicristalli impostati alla massima velocità faticavano a toglierla dal parabrezza quel tanto che bastava per farmi vedere dove andavo. Era in programma una festicciola ma nessuno di noi era convinto di ciò che stava facendo, in quelle condizioni metereologiche montare in un bosco sembrava davvero impossibile e le obiezioni sollevate da molti non erano solo lecite, come potevamo farcela?
La situazione era a dir poco assurda ma niente, il fondatore dei Brutal Toys è la persona più ostinata che abbia mai incontrato in vita mia e quella festa si doveva fare, punto. Siamo partiti in carovana, avevo la patente da un mese, non conoscevo le strade e non vedevo quasi nulla a causa della pioggia, non capivo nemmeno dove finiva la strada e dove iniziava il marciapiede perchè era tutto completamente allagato, ogni rotatoria era una tortura e sudavo freddo mentre tentavo di stare dietro al furgone per non perderlo, visto che non avevo la più pallida idea di dove stessimo andando. Ero talmente concentrata che l’amica al mio fianco stentava a parlarmi, forse perchè non rispondevo, forse perchè anche lei aveva paura potessi non accorgermi di una rotonda, dalla tensione nemmeno la musica era stata accesa, dopo svariati km in silenzio il tempo che intercorreva tra una secchiata d’acqua e l’altra si allungava, il diluvio è diventato piano piano una pioggerella leggera e quando siamo arrivati a destinazione non pioveva più. Non so come abbiamo fatto a montare ma alla fine quella dannata festa è riuscita davvero, ed è pure venuta molto bene, contro ogni aspettativa, contro ogni previsione e grazie alla testardaggine di una singola persona.
La mia mente tornava sempre a questo episodio quando sentivo qualcuno che sputava sentenze, definendo il “popolo dei rave” come un branco di delinquenti senza alcuno scopo nella vita. Come se fossimo tutti uguali. Come se quel giudice improvvisato, autoproclamatosi tale, sapesse per certo quale poteva essere (da leggere con tono ironico/solenne) il vero scopo della vita.
Quale vita? La sua? La nostra? Come se si sentisse in diritto di dirci cosa ci avrebbe dovuto rendere davvero felici, come se avesse la pretesa di sapere cosa invece ci avrebbe fatto desiderare di morire. Una laurea, uno status sociale riconosciuto, il posto fisso, una vita in viaggio, un’attico in centro, una casa in campagna, una macchina potente, la fama, l’anonimato, il matrimonio, una relazione stabile, una vita di eccessi, un ideale, un sogno, una passione? Risposte diverse per anime diverse. Come si può pensare di essere sulla strada sbagliata se si vive con tanto ardore?
“Proprio per essere fenomeni controculturali, staccati dal potere ufficiale e ad esso avversi, i rave sono sempre stati osteggiati dalle autorità nella loro diffusione, soprattutto nel corso degli anni 90, quando il movimento aveva già raggiunto dimensioni considerevoli e fondamenta solide su cui svilupparsi ulteriormente…Un free party è un incubo: senza profitto, senza spettatori passivi con cervelli atrofizzati da comandare, senza rispetto per la proprietà e il capitale. I governi tramite queste repressioni mostrano di essere spaventati dal potere dei rave, e tentano di limitarlo prima che si sviluppi in direzioni sconosciute. Ecco perchè intere aree di anticonformismo vengono criminalizzate.”
Un piccolo scritto trovato in rete che mi è piaciuto molto, rappresenta bene il movimento.
“Il nostro stato emotivo l’estasi. Il nostro nutrimento l’amore. La nostra dipendenza la tecnologia. La nostra religione la musica. La nostra moneta la conoscenza. La nostra politica nessuna. La nostra società un’utopia che sappiamo non sarà mai.
Potete odiarci. Potete ignorarci. Potete non capirci. Potete essere inconsapevoli della nostra esistenza. Possiamo solo sperare che non ci giudichiate, perchè noi non vi giudicheremo mai.
Non siamo criminali. Non siamo disillusi. Non siamo dipendenti dalla droga. Non siamo dei bambini inconsapevoli.
Noi siamo un villaggio tribale, globale, di massa, che non dipende dalla legge fatta dall’uomo, dallo spazio e dal tempo stesso. Noi siamo un’unità. L’unità. Noi siamo stati plasmati dal suono. Da molto lontano, il temporalesco, eccheggiante e smorzato battito era simile a quello del cuore di una madre che tranquillizza un bambino nel suo ventre di acciaio, calcestruzzo e fili elettrici. Noi siamo stati allevati in questo ventre, e qui, nel calore, nell’umidità e nell’oscurità di esso, siamo giunti ad accettare che siamo tutti uguali. Non solo per l’oscurità e per noi stessi, ma per la vera musica che batte dentro di noi e passa attraverso le nostre anime: siamo tutti uguali. E attorno ai 35Hz possiamo sentire la mano di un dio sul nostro dorso, che ci spinge avanti, ci spinge a spingere noi stessi, a rinforzare il nostro pensiero, il nostro corpo e il nostro spirito.
Ci spinge a girarci verso la persona vicino a noi per stringerle le mani e sollevarle, condividendo la gioia incontrollabile che proviamo creando questo magico cerchio che può, almeno per una notte, proteggerci dagli orrori, dalle atrocità e dall’inquinamento del mondo che sta là fuori.
E’ in questo preciso momento, con queste percezioni iniziali che ognuno di noi è realmente venuto al mondo. Continuiamo ad ammassare i nostri corpi nei clubs, nei depositi e negli edifici che voi avete abbandonato e lasciato senza alcuna ragione, e gli riportiamo vita per una notte. Una vita forte, deflagrante, che pulsa, nella sua più pura, più intensa, nella più edonistica forma.
In questi spazi improvvisati, noi cerchiamo di liberarci dal peso dell’incertezza di un futuro che voi non siete stati capaci di stabilizzare e assicurarci. Noi cerchiamo di abbandonare le nostre inibizioni, e liberarci dalle manette e dalle restrizioni che avete messo in noi per la pace del vostro pensiero. Noi cerchiamo di riscrivere il programma che avete cercato di indottrinarci sin dal momento in cui siamo nati. Programma che dice di odiarci, di giudicarci, di rifugiarci nella più vicina e conveniente tana. Programma che dice persino di salire le scale per voi, saltare attraverso i cerchi e correre attraverso labirinti su ruote per criceti. Programma che ci dice di cibarci dal brillante cucchiaio d’argento col quale tentate di nutrirci, anzichè lasciare che ci nutriamo da soli, con le nostre stesse mani capaci. Programma che ci dice di chiudere le nostre menti, invece di aprirle. Fino a quando il sole sorgerà per bruciare i nostri occhi rivelando la realtà del mondo che avete creato per noi, noi balleremo fieramente con i nostri fratelli e sorelle, celebrando la nostra vita, la nostra cultura, e i valori in cui più crediamo: pace, amore, libertà, tolleranza, unità, armonia, espressione, responsabilità e rispetto.
Il nostro nemico l’ignoranza. La nostra arma l’informazione. Il nostro crimine violare e sfidare qualsiasi legge che voi sentite aver bisogno di utilizzare per porre fine all’atto di celebrare la nostra esistenza. Ma ricordate che mentre potete fermare un qualsiasi party, in una qualsiasi notte, in una qualsiasi città, in una qualsiasi nazione o continente di questo magnifico pianeta, non riuscirete mai a spegnere il party intero. Non avete accesso a questo interruttore, non importa quello che pensate.
La musica non si fermerà mai. Il battito del cuore non si spegnerà mai. Il party non finirà mai. Sono un raver, e questo è il mio manifesto.”
Può sembrare provocatorio, certi aspetti andrebbero approfonditi per essere compresi nel loro significato più profondo. Molti percepiscono la tekno come un fastidioso rumore, molti faticano addirittura a chiamarla musica e approfondirò questa sfumatura più avanti, ma non importa come viene definita, per me è stata molto di più, non è qualcosa che si può etichettare e non è possibile capire davvero cosa intendo ascoltandola da uno smartphone, serve un buon impianto. Ho cercato un compromesso con questo pezzo e spero possa essere leggermente afferrato anche da chi non ama il genere. Non abbiate timore ad alzare il volume!
Ai concerti le voci si sovrappongono, si uniscono, diventano una cosa sola. A volte ho il timore di dimenticare, ma quando ancoro un ricordo come quello fissato nello scatto qui sopra, ricordo anche l’intensità di certi attimi, è indelebile.
“Il mio grido di allarme verso un mondo sordo che non si accorge più di nulla e che sta sempre più perdendo la sua umanità. Ecco, penso che il concetto intorno al quale ruota tutto il disco sia proprio il significato di “essere umano”.
Con queste parole Danno (Simone Eleuteri) dei Colle Der Fomento, considerati uno dei migliori gruppi underground in Italia, racchiude il messaggio principale insito in “Numero 47”, l’album dal quale è tratto il pezzo che analizzeremo, prodotto dagli Artificial Kid (Danno alla voce, StabbyoBoy alle produzioni musicali, DJ Craim agli scratch e Champa alla grafica) uniti proprio da questo unico progetto sperimentale di cyberpunkrap.
CRAIM: “Credo sia il modo migliore per rappresentare quello che ci sta succedendo intorno. Il problema è che la realtà è peggiore della fantasia.”
Qui l’intervista. Ricordo di aver sorriso dall’inizio alla fine mentre leggevo gli aneddoti e i dietro le quinte della produzione.
STABBYOBOY: “In questo periodo sono stressato, sono in fase di recupero psicofisico per 543584384 motivi diversi ma riesco comunque a mettermi sulle mie macchine con l’intento di fare sempre qualcosa. Sto producendo alcuni beat per alcuni soggetti poco raccomandabili della scena romana, DEVO chiudere il disco con Fabiana Fondi per il progetto Liquid Minds e devo trovare un lavoro.“
Trascrivo questo virgolettato perchè lo trovo molto significativo e credo mi possa aiutare a trasmettere, a tentare di far comprendere davvero il seguente concetto: il genere è nato dalla strada e alla strada dovrebbe appartenere. Gli artisti non dovrebbero sentirsi superiori, non dovrebbero essere venerati e strapagati, sono esattamente come noi e come chiunque altro, danno voce alle nostre voci, semplicemente. Parlano con l’arte dell’anima. Con la verità del loro sentire.
Questo, per me, è il vero underground. E in questo caso è pienamente rappresentato.
Non c’è spazio per i dissidenti nel sistema che è andato instaurandosi, l’omologazione è diventata la chiave di volta che permette la continuità dell’ordinamento vigente e il suo definitivo successo. L’ideale sarebbe saltare definitivamente tutto il processo di transizione, trasformandolo nel più efficace e duraturo indottrinamento, è quello che sta succedendo con la scuola? Resa obbligatoria sempre più precocemente, parliamo della Francia dove anche l’homeschooling è sotto attacco.
Le parole del presidente Macron riassumono bene questa visione:
“…la scuola in uno Stato ha il compito di formare un determinato tipo di cittadino con canoni delineati e precettivi.”
In base alla realtà nella quale siamo immersi questa frase può essere percepita in mille modi differenti, come tutto del resto. Non è così strano che, partendo da certi presupposti, alla luce di svariati avvenimenti e considerando la piega assunta dalla società odierna, si possa facilmente ancorare quella nostra particolare percezione al pensiero di Danno che immaginando un futuro non troppo lontano, lastricato da “metallo e plastica” fa sorgere il ragionevole dubbio, se non addirittura la lecita preoccupazione, che possa essere scopo recondito della scuola, intesa come parte integrante del sistema, quello di masticare e risputare fuori i nostri figli coi circuiti fusi e gli occhi già chiusi. Talmente spaesati da non essere più in grado di orientarsi, da non riuscire più a vedere, a riconosce la propria identità, a distinguere le proprie idee da quelle imposte alla collettività. Talmente confusi da non essere più in grado di identificarsi fermamente in se stessi, ritrovandosi catapultati in un mondo sempre più artificiale e fittizio. Siamo così lontani dallo scenario distopico che immaginó Danno?
Il controllo di corpo e mente fin dall’incubazione, la volontà e il vantaggio nel mantenere la popolazione in una sorta di limbo glaciale dal quale risulta difficile uscire. Le sinapsi rallentano, reagire diventa arduo se calcoliamo la pressione esercitata dalle continue e subdole minacce volte ad imporre un’unica strada percorribile, appositamente tracciata per inseguire acriticamente il progresso fine a sé stesso. Una strada ben delineata, da alti muri laterali, per non rischiare che qualcuno finisca fuori tracciatoaprendo un varco nell’inesplorato e dimostrando che è possibile percorrere sentieri diversi da quelli già battutti, potrebbero esserci dei rischi e chi sceglie di assumersi la responsailità di tali incognite è semplicemente giudicato pazzo, un folle che necessita di essere protetto da sé stesso, deve essere ordinatamente riportato sulla retta e prestabilita via. Forse troveremo qualche cartello qua e là che potrebbe darci l’illusione di avere diritto alla libera scelta ma cammineremo sempre in sicurezza verso la medesima meta. Non abbiamo più la possibilità di decidere cosa sia meglio per noi, nè possiamo concederci il lusso di sbagliare da soli.
“Il sistema è industria, azienda, informazione”
Concetto perfettamente chiaro, che merita però di essere sottolineato nella sua semplicità. Segue una forte critica all’automazione e alla meccanizzazione industriale che vengono riproposte e si riproducono invadendo anche altri ambiti della vita, contesti che non dovrebbero essere sfiorati da questo genere di dinamiche, che non dovrebbero essere privati di quell’umanità e di quelle emozioni che li rendono speciali, pur mantenendo le caratteristiche “imperfezioni” che contraddistinguono i sentimenti, e forse proprio per questo, scongiurano possibili derive.
Come per l’evoluzione, ritorna il concetto del sistema fine a sé stesso, che per continuare a esistere e a perpetuarsi ha bisogno di elementi adatti a sostenerne il paradigma. Con questa consapevolezza mette in pratica tutto ciò che facilita la sua realizzazione e indirizza le necessità a lui funzionali. Getta le basi per la nascità di un nuovo tipo di uomo, generazioni che da subito vivranno al suo servizio.
“Un grande cuore freddo di titanio sotto una membrana umida” Ed ecco tutta la passione di Danno per il cyber racchiusa in una sola riga, questo mi rimanda col pensiero a parecchi giochi di parole che ho amato e ancora rimango attonita di fronte all’abilità di esprimere, ma soprattutto di far arrivare dall’altra parte, dritto al punto, un concetto, una sensazione, un pezzo di anima.
Ammiro quella capacità di sintesi e riuscirci con una sola rima è qualcosa di estremamente bello e inspiegabilmente intenso. Continuiamo con un trucchetto che può essere riscontrato in svariati campi, a partire dalla tecnologia. Il piacere che si riceve da una notifica si trasforma facilmente in dipendenza se non si utilizzano correttamente i dispositivi di cui si dispone e se non si è sufficientemente cauti. Questo meccanismo va sicuramente a favore di chi lo utilizza e l’obbedienza, consapevole o meno, potrebbe essere considerata come un’ottima moneta di scambio.
Ogni voce fuori dal coro infastidisce e a volte è ritenuta potenzialmente pericolosa, da eliminare o strumentalizzare in base alle situazioni, questo è un passaggio essenziale per evitare che il castello di carta fatto di scientismo e congetture, tenuto in piedi nonostante le sconsiderate e folli corse verso il nulla, crolli sotto lo sguardo critico e autonomamente pensante di quei coraggiosi occhi pronti a mettere in discussione ogni loro apparente certezza con l’umiltà che serve ad ammettere quanto siano stati precipitosi nel venerare qualcosa di decisamente discutibile, quanto siano stati presuntuosi nel sentenziare su tutto ciò che credevano di sapere arrivando infine ad essere pronti a riconoscere quanto poco in realtà sappiano davvero.
Questi freddi calcolatori ai quali è stato sottratto il buon senso necessiterebbero di un forte scossone, per recuperare l’umanità che va dissolvendosi nel calcolo delle probabilità, tentando di scovare l’ultimo dissidente rimasto in piedi nel suo disperato tentativo, quello di passare tra le maglie sempre più strette del sistema. Probabilmente Danno ci aveva visto lungo perchè il suo ultimo verso non potrebbe essere più attuale.
“In questa caccia all’uomo su scala globale Questo è l’ultimo passo, questo è l’atto finale”
Nato a Roma il 23 gennaio 1991. Fin da bambino prende lezioni di musica, imparando anche a suonare pianoforte e chitarra. Si avvicina all’hip hop verso i 12-13 anni, grazie alle canzoni di Kaos e forse, anche grazie a questo, cresce a testa alta, forte nei valori. A 17 anni, in seguito a problemi finanziari della famiglia, va via di casa, mantenendosi da solo. Si è presentato sulla scena rap italiana con un video su YouTube, indossava un passamontagna, divenuto poi il suo simbolo di riconoscimento. Gli fu assegnato da Esa il premio della Critica visti i consensi raggiunti. Il suo primo lavoro è Musica Cicatrene Mixtape.
Mezzosangue apre la strofa con l’impianto che fa vibrare i cuori e fischiare i timpani, parte carico sulla traccia pensando a quanto è facile perdere di vista certe facce, le lasci andare, le dimentichi ed è come se non avessero mai incontrato il tuo sguardo, come se non fossero mai esistite. Ci sono altri visi che invece si marchiano indelebili nei tuoi ricordi e anche se li perdi non te li scordi mai. Questo passaggio può essere più plausibilmente interpretato con un’accezione positiva, se ci riferiamo alle persone che hanno significato molto per noi, quelle che ci hanno lasciato qualcosa di talmente grande che sarebbe tragico scordarne i lineamenti, lasciar dissolvere il ricordo di quei veri rapporti, mentre anche l’ultimo dettaglio va ad estinguersi. Negativamente parlando si potrebbe riferire anche a quei volti che ti perseguitano mentre pensi che daresti qualsiasi cosa per poter dimenticare. Potrebbe rientrare in questa categoria la gente che crede di sapere tutto di te, sempre in prima linea a giudicare e sempre pronta a dispensare consigli che lei stessa evita di seguire.
Troviamo un bel riferimento alla vita, paragonata all’avventura di Ulisse verso la sua lontana Itaca. Trovare un solido appiglio sarà di vitale importanza per affrontare e superare i momenti più burrascosi del nostro viaggio. Ci serviranno valori ben consolidati e radici profonde per non essere trascinati via dalla corrente, non sarà sufficiente la superficialità di una zattera, anche se leggeri, non saranno i pensieri frivoli a tenerci a galla. Potremmo vivere situazioni difficili, momenti che potrebbero minacciare la nostra quiete e il nostro equilibrio, forse pagheremo per qualcosa che abbiamo fatto in passato? Salderemo il conto della persona che ci siamo lasciati alle spalle? Il karma di chi eravamo. Chi può dirlo con certezza?
In alcuni momenti, come questo, per Mezzo e per tutti quelli che si rispecchiano nelle sue parole, l’unica figura autorizzata a sentenziare su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è il barman che si ha di fronte, del quale vediamo solo il busto sfuocato svettare sopra al bancone lucido. L’unico alchimista che miscelando ad arte, in maniera sublime, è in grado di fermare per un po’ quel trambusto che non ci abbandona mai. Dopo svariati giri, per qualche ora è pace. Hakuna Matata.
Appena il tempo di iniziare a godersi la tranquillità con gli unici due amici che siamo certi non ci abbandonerebbero mai, entrambi Jack.
Uno che fa compagnia al ghiaccio nel bicchiere e rende il mondo ovattato, l’altro alla fine delle cuffie è intento a regalare note di conforto, come lui solo sa fare.
Il tutto prima che la dura realtà irrompa di nuovo rumorosa e prepotente come una raffica di vento gelido a ricordarci che non abbiamo ancora fatto rientro al porto. Non ancora.
I versi di Mezzosangue non sono solo poesia, emozione ed empatia, sono la sua stessa vita, sono i suoi sacrifici che si riversano dentro al foglio vuoto, colmandolo.
L’interludio diviso in due parti è l’estratto di Waking Life proposto stamattina per la nostra settimana tematica! Per l’occasione riproponiamo e rivisitiamo una delle riflessioni del nostro Mer Curio. Quando è stata l’ultima volta che ci siamo alzati allegri, con la voglia di uscire di casa? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo sorriso così, senza alcun motivo apparente? Quando è stata l’ultima volta che siamo rientrati tardi, sotto quella pioggerella leggera? E nel pieno di un diluvio mentre i fulmini sembravano crepare il cielo? Quando è stata l’ultima volta che siamo stati svegli a cantare fino al mattino dimenticando l’ora, il lavoro e l’affitto? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo vissuto con ardente passione? Assumendoci la responsabilità di quello che siamo davvero. Accogliendo e accettando il rischio inscindibile da alcune delle azioni essenziali intraprese per raggiungere ciò che vogliamo davvero. Arrivando fino in fondo, tagliando i traguardi che ci siamo prefissati ed essendo pienamente soddisfatti del risultato.
L’esistenzialismo come spinta alla crescita personale e alla comprensione strettamente individuale del vivere potrebbe essere molto più concreto di quanto immaginiamo, tutt’altro che inutile e totalmente opposto al senso di disperazione a cui invece viene associato. Spesso ci si può sentire come gocce in un’infinita distesa d’acqua e lo sconforto nel constatare quanta poca influenza esercitiamo come singoli individui può prendere il sopravvento.
Il monologo proposto fa riflettere e dona speranza. L’apparente inutilità legata al peso delle nostre decisioni personali crea precedenti ed esempi che, soprattutto se presi singolarmente e isolati, per quanto piccoli e insignificanti possano sembrare, finiscono per essere fatti di osmio, il metallo con la maggior massa per unità di volume e con questa densità le nostre scelte pesano molto più di quanto siamo disposti a credere.
Questo fa la differenza. Noi possiamo fare la differenza. Se solo la smettessimo di sentirci “vittime di una concomitanza di forze”.
Se solo la smettessimo di credere che siano gli eventi a decidere per noi. Se solo la smettessimo di nasconderci dietro al “tanto non cambia niente”. Perchè sempre e solo noi abbiamo l’ultima parola su chi decidiamo di essere.
La seconda strofa si apre sottolineando la tendenza all’insoddisfazione denunciata nell’interludio e facendo riferimento alla dannosità di certi comportamenti umani, parla di autodistruzione.
“Non basta dirlo per sfatarlo” non è sufficiente essere informati sui fatti, imparare a livello nozionistico, pensare di sapere o avere la presunzione di conoscere. Si rischia comunque di superare il limite. Potrebbe anche voler mettere l’accento sull’importanza dell’esperienza diretta e sulla necessità di interiorizzare i concetti per raggiungere la piena consapevolezza.
“Perdi tutto, prendi tutto fino all’overdose” Mezzo sembra riconoscere quanto le sue rime possano risultare impegnative e a tratti gravose perchè spesso tocca argomenti seri o tristi, sembra riconoscere che le sue parole possano essere definite pungenti perchè spesso si occupa di tematiche scomode e infine si identifica in Keyser Söze, forse sentendosi sempre giudicato colpevole come il personaggio del film “I soliti sospetti”. Quando il livello di sopportazione è al limite accade spesso di essere travolti dalla voglia di scappare, di andarsene semplicemente via.
Probabilmente sarebbe più facile dire addio se solo servisse a risolvere i problemi e a volte condivido la sua esasperazione, a volte le persone provano a capirci, a volte siamo noi a fare il primo passo tentando di spiegare, con l’intenzione di lasciare un pezzetto di noi stessi agli altri quando in realtà siamo i primi a non comprenderci, ad avere nell’anima dei punti ciechi vasti come oceani inesplorati. Segue qualche verso incazzato con Dio o si tratta solo di un intercalare? Può essere la presa di coscienza di una resa, accettare di non avere più le forze per credere ancora che a qualcuno importi dei tuoi pensieri e lasciare andare tutto, perdendo ogni contatto. Può essere uno sfogo per non essersi mai sentito ascoltato, per non aver ancora ricevuto le risposte alle sue domande.
“Ti ho chiesto chi è che vince se vinco contro me stesso” può denotare il suo conflitto interiore, il bisogno di comprensione, la voglia di migliorarsi sempre. In definitiva non ha molta importanza sapere con chi ce l’abbia di preciso, a chi si riferisca, visto che chiunque sia l’interessato, è sparito nel nulla, lasciandolo solo, come hanno fatto tutti in questo mondo spietato.
Lascio libera interpretazione all’ultima sua rima, un po’ perchè la trovo eloquente, un po’ perchè mi piace molto l’idea di concludere lasciando aleggiare nell’aria i suoi versi.